Recensioni / Roma, la "non" città raccontata dall'urbanista Ostilio Rossi

La recente pubblicazione del volume di Piero Osti ho Rossi, "La città racconta le sue storie. Architettura, paesaggi e politiche urbane. Roma, 1870- 2020", per i tipi di Quodlibet, è l'occasione per una complessiva riflessione sulle prospettive di una città sempre più caotica e disurbanizzata, le cui disfunzioni sono state fatte emergere ancor di più dal tempo pandemico.
Composto da tredici saggi, redatti nell'arco di venticinque anni e che spaziano dalla 'città del mare' alle prospettive di mobilità, dalle radici intrise di razionalismo fascista dell'Eur alla costruzione dolorosa e largamente irrisolta delle opere ispirate a e dai grandi architetti come Le Corbusier, H volume pone, anche e forse soprattutto, la questione di come approcciare un futuro inciso dal virus.
La pandemia, osserva Ostilio Rossi nel saggio conclusivo significativamente riservato alle prospettive della Roma che verrà, ha ingenerato effetti non banali anche sul modo di concepire la spazialità urbana: dalla libertà e dalla costruzione di spazi invididuali, si è passati, facendo leva su interconnessioni e sulla solidarietà sociale, ad un elemento organizzativo-funzionale utile per poter fondare una qualche resistenza allo stritolamento della finitezza degli orizzonti.
Ad oggi però le nuove prospettive, di collaborazione pubblico-privato e di urbanistica partecipata, di patti di collaborazione o di rigenerazione urbana, se si eccettuano le modalità interconnettive informali del tutto prescindenti dalla istituzionalizzazione di vincoli col potere pubblico, hanno lasciato l'amaro in bocca.
Il riferimento può essere a quelle dinamiche già note al nostro ordinamento, come i consorzi di autorecupero, presenti nel magmatico tessuto urbano cittadino di Roma e la cui funzione sarebbe dovuta essere, in ipotesi, la collaborazione a fini di recupero di aree gravide di abusivismo edilizio, disfunzionali e disurbanizzate nel loro evolversi.
Non può dirsi che il modello abbia riscosso particolare successo, e non certo per colpa dei soggetti privati: i consorzi di autorecupero sono stati sottoposti a una ragnatela talmente intricata di incombenti amministrativi, spesso multi-livello, e di complicazioni burocratiche da aver dettato nei fatti il fallimento del modello.
Privi di servizi, piombati in un limbo di inerzia del decisore pubblico, i consorzi sorti sulle ceneri metaforiche delle aree ex abusive hanno dovuto assistere a continue, tendenzialmente infruttuose interlocuzioni istituzionali che di fatto non hanno migliorato la situazione.
Specchio perfezionato di una città che priva di una autentica `visione' di sviluppo, continua ancora oggi a vivere, amministrativamente e urbanisticamente parlando, alla giornata.
Lo stesso problematico sviluppo verso la `città del mare', autentica vocazione del tessuto capitolino come rileva Rossi nel saggio introduttivo, sembra essersi ibernato alla fine degli anni cinquanta e sessanta, dopo di che si stende solo una coltre di silenzio, irrazionalità gestionale e pianificazione caotica: l'intero Litorale capitolino, pesantemente contraddistinto da mancanza di servizi e da un elevato tasso di abusivismo edilizio storico, è mal collegato con la città di Roma, di cui pure giuridicamente è a tutti gli effetti parte integrante.
Le incontrollate agglomerazioni urbanistiche dell'entroterra lidense hanno saturato le vie di mobilità, coagulandosi attorno la Via Cristoforo Colombo e la Via del Mare, finendo con l'aumentare il carico antropico, a invarianza delle infrastrutture. Prevedibile risultato: congestione di traffico, dettata dalla necessità di pendolarismo per lavoro o per usufruire dei servizi, verso Roma.
Mettere mano sul serio alla materia urbanistica significa voler definire le prospettive di sviluppo e di vivibilità cittadina. Una lezione difficile, ma preziosa e in certa misura necessitata.