Recensioni / Gianni Celati tra la Padania e Hollywood

Gianni Celati, scomparso la settimana scorsa, è lo scrittore italiano che «più di tutti, negli ultimi cinquant'anni», ha riservato un'attenzione costante al cinema. Così scriveva Gabriele Gimmelli in Un cineasta delle riserve. Gianni Celati e il cinema (Quodlibet, pp. 451, euro 25), libro di erudizione e leggibilità esemplari, uscito qualche mese fa.
Nei necrologi è stata ricordata la sua tarda attività di documentarista, in Strada provinciale delle anime (1991), viaggio in pullman lungo la foce del Po, o Case sparse (2003), sui casali in rovina nella pianura padana. Un'attività, ricorda Gimmelli, che aveva le proprie radici nell'incontro con il fotografo Luigi Ghirri e, prima ancora, con il teatro di Giuliano Scabia.
Ma il cinema ha nutrito la scrittura di Celati fin dalle origini, soprattutto attraverso la passione per la comicità slapstick di Buster Keaton o dei fratelli Marx. I suoi primi personaggi, con una scrittura che mima il linguaggio parlato in avventure picaresche, erano insieme figli della pianura padana e delle comiche del muto.
Celati è un cinefilo anfibio: ama il cinema di un amore coltissimo ma vorrebbe aspirare, a volte a forza, a un'ingenuità comica e buffa. Dagli anni 80, mentre la sua prosa si fa più raccolta, riscopre il cinema più sospeso di Antonioni o Wenders. II fatto è che si trovava a metà tra due generazioni: quella cresciuta sotto il fascismo, per cui Hollywood era evasione, distanza e libertà; e quella delle Nouvelle vague, per cui il cinema era crescita culturale e anticamera della politica. E soprattutto, per lui come per altri scrittori, era qualcosa di diverso dalla letteratura: irruzione del gag, cortocircuito della parola, o contemplazione di un mondo che, negli ultimi tempi, gli appariva soprattutto un mondo in sparizione.