Al termine di una via residenziale di villini abusivi condonati, illuminato dal sole di un rigido mattino di
gennaio e ammantato dal profumo del sugo dei vicini mi appare in angelicato candore Spazio In Situ, ex palestra ed ex magazzino che dal 2016 ospita un collettivo
di sei artisti, i loro atelier e un'ampia sala
allestitivi visibile sin dalla rampa di accesso. Mi accoglie il direttore artistico e
co-fondatore Christophe Constantin, giovane artista svizzero che, da quanto dedurrò ascoltandolo, è la mente manageriale del progetto. Con una coloritissima loquacità franco-romana e un'ospitalità
compagnona priva di affettazione mi guida attraverso gli ambienti di Spazio In Situ, uno dei primi e più organizzati run artist space della città.
Rispetto alle numerose
e altrettanto vivide realtà
artistiche underground romane germogliate negli ultimi tempi, oggi narrate
da Vera, sofisticato progetto editoriale curato da Damiana Leoni di imminente
uscita per i tipi di Quodlibet e dalla mostra Materia
Nova in corso alla Galleria
d'Arte Moderna, Spazio In
Situ vanta una certa anzianità e la condivisione, da
parte dei membri del collettivo, di un'idea comune. Né politica né tecnica,
mi spiega Christophe, ma
basata sul dialogo costante con la società contemporanea. La condizione per far parte di Spazio In Situ, oltre
al versamento della quota per le utenze, i
materiali e la ristrutturazione autoprodotta, è l'adesione a quest'idea comune. Scettici verso quelle che definiscono etichette
politiche usurate, gli artisti di In Situ il riferimento al site specific che il nome sembrerebbe suggerire non è stringente per
le loro pratiche, eterogenee desiderano
mantenere forte il contatto con la realtà e aperto il canale con le istituzioni. Non intendono idolatrare gli anni 70, ma interrogare i propri. Oltre alle personali e alle collettanee interne o affini alla propria area,
lo spazio ospita progetti delle Accademie
internazionali e non esclude future collaborazioni di natura più ufficiale.
Come mi chiarisce Giuseppe Armogida,
dottore di ricerca in filosofia e teorico di
Spazio Mensa, altro rilevante collettivo cittadino, una delle primarie caratteristiche
dei collettivi artistici romani è proprio la
mancanza di manifesti e programmaticità politica. Deduco che il collettivo,
nell'accezione sposata da queste realtà,
partecipa al concetto di co-working. La
compresenza in uno spazio e la cura dello
stesso diventa un metodo concreto per abbattere i costi e trarre giovamento comune da una struttura altrimenti ingestibile.
Christophe e i suoi colleghi hanno trovato
lo stabile dopo una lunga ricerca, lo volevano alla periferia di Roma est per avere
costi bassi, mezzi di traporto e ingrossi a
portata di mano. Qui a Tor Bella gli artisti
si dicono sereni, frequentano il bar, qualche trattoria, conoscono i vicini, ma non
hanno scelto il quartiere per motivi politici e, pur apprezzando la semplicità verace
della gente di zona, non interpretano la
propria presenza sul territorio come una
missione sociale.
Gli artisti hanno un'età compresa tra i
25 e i 35 anni, molti si sono conosciuti alla
Rufa, ma si sentono svincolati dalle impostazioni pregresse grazie a un percorso autodidattico di cui intuisco la natura vagamente accentrata. Stando insieme, ribadisce Christophe criticando il provincialismo del sistema dell'arte italiano, hanno
imparato a esprimersi in modo più libero.
Alcuni sono qui dall'inizio, altri da meno,
fanno i turni per le pulizie e partecipano
attivamente ai lavori di manutenzione,
collaborano ai progetti reciproci. La loro
quotidianità è scandita da una prassi produttiva e organizzativa e da uno spontaneo viavai da questo ad altri spazi, da questa ad altre città. Mentre discorriamo Marco De Rosa, giovane artista dello spazio
sin dalla prima ora, carteggia come sospeso in un pulviscolo atemporale. Che quella artistica romana sia un'onda destinata
a sfumare o il fenomeno culturale di cui
serberemo leggendaria memoria, una cosa è certa: si presenta come un'interessante alternativa odierna agli spazi di movimento di cui tanti serbano nostalgia. Tra
tele, trapani e pennelli scorgo un tavolino
carico di cicche, bottiglie vuote, foto e disegni, sembrano avanzi di una festa e invece non sono che il suo inizio.