«Un cineasta
delle riserve».
Così Gabriele
Gimmelli definisce Gianni
Celati, il cui
rapporto con il cinema è stato, nel
corso degli anni, tanto profondo
quanto imprendibile. Il tema della
«riserva» è del resto un tema celatiano e ha a che fare con un'idea di completa liberazione da ogni sorta di obbligo esterno. Si scrive per quelle «riserve di cose che erano già là nel nostro orizzonte, prima dinoi» e si filma
perla stessa ragione, senza il bisogno
di dover dimostrare nulla, ma inseguendo i palinsesti del visuale che ci
si presentano nelle derive dei nostri
viaggi minimi, oppure nelle vite incontrate nei mondi più lontani.
Celati avrebbe rifiutato per sé la
definizione di cineasta e per i suoi
film, in un sol colpo, quella di documentario - di un'immagine assertiva
e positiva - e quella di fiction, che «incastra» il cinema dentro un dispositivo di illusione nel quale resta intrappolato. D'altra parte, come racconta
Lamberto Borsetti Gimmelli, Celati
non era, nei fatti, capace «di dire
"Azione!"o "Stop"»eil topos dellla«riserva», nel suo porre sostanzialmente
al riparo da categorizzazioni, restituisce lo sforzo cinematografico di questo autore al territorio dell'imprevedibilità, cômepiaceva a lui i film devono
essere «imprevedibili non solo per gli
spettatori, ma anche per chili fa», devono trattenere ciò che sta dinanzi a
noi in un dato momento e che non saràpiù possibile mettere in scena allo
stesso modo. Il «disponibile quotidiano» contiene il potere immaginifico
della finzione e l'ambizione morale
del documentario, ma non bisogna
forzare la mano, non occorre partire
per documentare, né per mettere in
scena, basta aderire ai luoghi, basta
avere, come diceva Zavattini, la pazienza di «stare dentro l'inquadratura», oppure, come scriveva Ghirri, la
capacità di «soffermarsi».
«Scrivendo o leggendo dei racconti - diceva Celati introducendo Cinema naturale - si vedono paesaggi,
si vedono figure, si sentono voci: è un
cinema naturale della mente, e dopo
non c'è più bisogno di andare a vedere
i film di Hollywood». Sembra che
l'idea di cinema celatiana colleghi le
immagini in movimento a stati quasi
allucinatori, pre-montati, sospesi al
confine tra poesia e magia: paesaggi,
figure, voci, che portano con sé un
tempo e uno spazio cui non conviene
sovrapporre architetture della visione o schemi di narrazione. Immagini
libere, cinema non compromesso,
quel tipo di cinema che una cinepresa
può benissimo riuscire afare, ma che
l'industria del film renderebbe impossibile. I «film di Hollywood», in altre parole, non sono «cinema naturale», sono cinema artificiale, messo in
scena, costruito, mentre Celati non
vuole farsi prendere, sfugge di continuo tenendo ben stretti tra le mani la
letteratura, il teatro, la fotografia, i
paesaggí.e le lingue che fanno il suo
pensare e il suo vedere.
Questo primo sistematico lavoro sul cinema di Celati si impegna a
sua volta a tenere stretto il filo di questo composito discorso e a studiare le
evoluzioni e i gradi di consapevolezza
del cinema celatiano, operando, tra gli
altri, sui materiali conservati presso il
Fondo Celati alla Biblioteca Panizzi di
Reggio Emilia. Il cinema, si sa, è già in
qualche modo presente dall'inizio
nella scrittura celatiana, che nella sua
ricerca ama incrociare le pratiche artistiche «basse» o popolari e non rinuncia ad una vena comica che rimanda a molte visioni cinematografiche (Keaton, Laurei e Hardy, i Marx,
ma anche Tati), eppure Celati non fa
parte della schiera di letterati che scrivono per il cinema o che ambiscono -
e magari riescono - a girare almeno
un film da regista. Anche in questo
Celati sfugge. Se cinema dev'essere,
sia fuori dalle traiettorie tradizionali
dei rapporti tra il film la letteratura.
Il libro ricostruisce anche la storia del Celati moviegoer, che come
tanti giovani intellettuali della sua
generazione andava al cinema quasi
ogni giorno, appassionandosi al western e poi scoprendo la slapstick comedy, il cinema d'avanguardia di Dziga Vertove di Joris Ivens, fino al Neorealismo e alle nuove onde del cinema
europeo. Il filo di questo cinema vibra, teso, dentro i film di Celati (da
Strada provinciale delle anime a Il
mondo di Luigi Ghirri, da Case sparse
a Diol Kadd, fino all'ambizioso progetto di biopic su Fausto Coppi), opere
cui Gimmelli si accosta conprecisione, senza mai dimenticare che la visualità celatiana si dà per espansione
e dunque travalica il cinema stesso o
lo include dove non lo aspetteresti.
Si esce dalla lettura chiedendosi
se esista davvero un cinema celatiano
e la risposta, naturalmente, è sì e non
soltanto perché ora possiamo contare
su un volume che supera le quattrocento pagine che ce lo certifica. Un cinema celatiano esiste a patto di tornare nei pressi delle riserve da cui
eravamo partiti, a patto di accettare
un cinema senza cineasta, un esperimento della visione che passa per
particolarissimi recadrages fatti diletteratura, di fotografia e di teatro. Anche queste, d'altra parte, sono riserve
che erano lì, prima di noi.