Recensioni / “Civita” di Giovanni Attili

Uno dei lasciti retorici della pandemia è senza dubbio il discorso sui “borghi”. Nel discorso veicolato attraverso i grandi media (ma non solo) la necessità della distanza imposta dal virus si sarebbe tradotta in un rinnovato interesse per modalità di vita largamente idealizzate (e irrealistiche) in centri appenninici o montani ora in stato di abbandono. Mi colpì molto l’illustrazione di uno dei tanti articoli o interviste che veicolavano tale messaggio nella quale si ritraeva un minuscolo villaggio su un colle popolato di figure che per la verità svolgevano attività che fanno parte di un immaginario e di un sistema di pratiche pienamente urbani: si andava al cinema, si facevano incontri di lavoro in spazi di co-working, si andava al ristorante e così via. Sostanzialmente il messaggio dell’illustrazione era: “riscopriamo i borghi, potremo viverci esattamente come in città”. Quella illustrazione rappresentava bene le ragioni del successo di quella narrazione che, attraverso una serie di semplificazione successive, permette a un pubblico metropolitano di immaginare un nuovo modo di vita che implica il non perdere sostanzialmente nulla rispetto al modo di vita attuale, e ancor di più permette di non riflettere criticamente su tale modo di vita.
Tale semplificazione agisce a più livelli, il primo è quello della riduzione della complessa, problematica varietà socio-territoriale del nostro Paese a una polarizzazione fra le grandi aree metropolitane e i “borghi”, come se nulla esistesse nel mezzo (vaste periferie metropolitane, estensioni post-metropolitane più o meno svalutate, valli più o meno “tristi” ma anche, semplicemente, città medie e piccole). Questa semplificazione è volta a solleticare e suffragare gli stili di vita già esistenti dei ceti medio-superiori che di frequente sono organizzati attorno al pendolarismo non quotidiano fra grandi aree metropolitane e aree non urbane di pregio (con nel mezzo dei meri spazi di attraversamento cui buttare occasionalmente un’occhiata più o meno distratta). Il secondo livello su cui agisce è quello del suggerire l’idea di un cambiamento di stile di vita che in realtà non cambi nulla, e che sia una sorta di gattopardesca traslazione del proprio stile dalla città al borgo senza che questo implichi qualsiasi ulteriore responsabilità sia in termini di riflessione critica sul proprio stile di vita sia nei termini della relazione complessa che si dovrebbe stabilire con chi già abita quei “borghi” più o meno immaginifici. La forza del discorso, ed il suo carattere eminentemente conservatore, risiede tutta nel suo appellarsi a un pubblico che già esiste, e che in parte significativa già pratica quel modello di vita multi-locale fra aree diversamente pregiate o comunque vorrebbe praticarlo perché già inscritto nei codici di distinzione sociale che circolano nel proprio gruppo sociale di riferimento. Questo pubblico, peraltro, ha praticato intensamente in questi due anni di pandemia tale stile di vita, laddove chi disponeva di una seconda casa vi ha passato una quota crescente del proprio tempo. E lo ha fatto, in quel frangente, non rinunciando alla vita urbana, considerato che la vita urbana era stata temporaneamente interrotta oppure era andata digitalizzandosi permettendo così un’ulteriore urbanizzazione di aree non urbane.
Quindi, complessivamente, nel discorso egemone sui “borghi” il tutto si riduce essenzialmente a questioni di stile di vita per chi esercita un livello elevato di controllo sul proprio stile di vita (ovvero può scegliere dove vivere, e come viverci): l’interdipendenza fra diversi punti e diverse scale territoriali, la complessità e rilevanza dei fattori strutturali che contribuiscono a produrre ciascuno di questi punti e di queste scale e i diversi modi con i quali i gruppi sociali si relazionano con tale complessità e infine la possente questione ecologica (non green, ecologica) che qualsiasi discorso sui margini del territorio implica scompaiono tanto da permettere di fare un discorso sui “borghi” e solo sui “borghi” e sul “andare a vivere nei borghi” senza nulla intorno. Nel contesto di questo discorso leggere Civita. Senza aggettivi e senza altre specificazioni di Giovanni Attili (Quodlibet, 2020) è un esercizio di grande potenza. E direi anche, nello specifico, di straordinaria potenza civica, nel senso che dà la possibilità di arricchire la cassetta degli attrezzi di chi oggi subisce questo discorso. Un discorso che è politico a tutti gli effetti (a maggior ragione perché non lo sembra) e che quindi implicherebbe un qualche posizionamento collettivo da parte di chi lo riceve e che, a rigore, non dovrebbe essere di mera apologia. Tale cassetta degli attrezzi è andata per la verità irrobustendosi in anni recenti, si pensi ai diversi contributi del collettivo “Riabitiamo l’Italia” (dal volume Riabitare l’Italia. Le aree interne fra abbandoni e riconquiste al Manifesto per riabitare l’Italia, entrambi editi da Donzelli), ma col volume di Attili dedicato alla traiettoria di Civita di Bagnoregio si arricchisce di un contributo che muove da una prospettiva molto peculiare. L’elemento che più qualifica e definisce tale peculiarità è senza dubbio l’ambizione di raccontare e spiegare il territorio attraverso la ricostruzione di storie e traiettorie di chi è venuto ad abitarlo, possibilità che aumenta il proprio potenziale euristico quando si tratta di un territorio minuto, ultra-periferico e abbandonato. Attili non sottovaluta i fattori strutturali – sia nell’ambito dell’economia politica del territorio, ma soprattutto in quello della cultura come fattore sempre più qualificante di tale economia politica – che permettono il dispiegarsi e la significatività di queste storie, ma è indubitabilmente alle storie (e in particolare, come vedremo, a una) che dà l’assoluto primato. Da questo punto di vista, la prima cosa che il testo di Attili ci fa dire quando si parla di “borghi” è che tale costrutto non esiste, esistono viceversa trame finissime e differenziate di spopolamento e (talvolta) ripopolamento che bisogna conoscere, documentare, e anche criticare come fa (sebbene con grande empatia) Attili. Lo fa ricorrendo ad una varietà di strumenti e strategie che hanno a che fare con il racconto antropologico e con quello della storia sociale e facendo ampio ricorso alla parola viva di testimoni e protagonisti e ad un esteso apparato di immagini e documenti: non interessa qui la “correttezza” del metodo, interessa piuttosto quanto le rappresentazioni di diversi individui e gruppi sociali hanno costruito direttamente e indirettamente giorno dopo giorno un campo discorsivo che vedrà Civita ricostituirsi come oggetto di interesse, e quindi oggetto di strategie anche prima potenzialmente e poi realmente confliggenti. Da questo punto di vista, metodo e risultati confermano un fatto disturbante che chiunque si occupi di teoria e pratica del territorio, attraverso l’attivismo e l’iniziativa, conosce ormai bene: ogni parola e ogni azione sul territorio si autonomizza nello stesso istante in cui è formulata e messa in atto, andando a comporre campi discorsivi e di pratica più ampi dagli esiti imprevedibili e talvolta del tutto opposti rispetto agli obiettivi originari. Questo è un fatto disturbante da una parte, ma dall’altra è anche un richiamo alla responsabilità ed alla necessità di coltivare una opinione “territoriale”, non moralista ma nemmeno superficiale e sbrigativa (che poi è egualmente una forma di moralismo) perché anticipare effetti e derive non desiderate ma tutto sommato prevedibili. La storia di Civita è anche la storia di questa tragedia, la tragedia di un mondo nel quale la sua ricostituzione come terreno di vita da parte di alcuni è stato il sostrato sul quale si sono poi erette strategie estrattive banali. E di come la possibile fuoriuscita da queste strategie apre una serie importante di dilemmi su cosa sia il passato, su come lo si ricostituisce e sulla base di quale legittimità sociale, di come si debba concettualizzare un universale e non classista diritto a muoversi a fronte dell’imperativo di non banalizzare il mondo. In questo, il volume rappresenta anche un invito a riflettere su una sorta di etica territoriale minima che bisogna coltivare quando si discute di e si opera su oggetti sdrucciolevoli quale l’ampia eredità di aree marginalizzate entro il palinsesto storico del territorio italiano.
La prima parte del volume è dedicata alla ricostruzione della vicenda di Civita, potentemente segnata dalla sua congenita fragilità geologica, insistendo in particolare sulla produzione di una traiettoria territoriale che si spiega attraverso processi successivi di rottura di equilibri che avevano reso possibile (e sostenibile) nel tempo la sopravvivenza della città. In larga parte, tale sopravvivenza è resa possibile da quella che Attili definisce come una “operosità incessante e minuta”, che permette alla comunità insediata di ricostituire le precondizioni materiali dell’abitare almeno fino a quando non si producono fratture di grande momento. Qui Attili rimanda a quel tipico corpo di competenze diffuse che, non necessariamente formalizzate, erano fortemente radicate in strutture sociali e cicli di vita dissipati dalla grande trasformazione del ventesimo secolo è risultato impossibile recuperare. La modernizzazione, che a Civita come altrove è significata il disaccoppiamento fra forme storiche di insediamento e modalità di produzione del reddito e della riproduzione sociale attraverso l’ascesa dell’industrializzazione e della terziarizzazione, è stata anche questo: una progressiva migrazione di competenze e capacità di trattare problemi territoriali da strutture sociali localizzate e dalla razionalità molto limitata in direzione di saperi tecnico-scientifici che tuttavia hanno lasciato per lungo tempo ai margini i bisogni per l’appunto dei margini territoriali (anche, banalmente, per via di un’assenza di domanda dello Stato e del mercato in tal senso). In questo quadro, quella di Civita è una storia di progressivo declassamento lungo le gerarchie urbane: la sua rischiosità, di per sé fonte di fragilità, implica la delocalizzazione delle funzioni che la rendevano una città accelerandone il declino. Si susseguono così i progetti di delocalizzazione della popolazione residua che, tuttavia, invariabilmente falliscono facendo di quella di Civita una comunità (e in questo caso, diversamente dall’uso se oggi correntemente, questa parola è davvero la più appropriata) che, sebbene progressivamente prosciugata, resiste. Tale resistenza ridefinisce il problema di Civita come un problema di raggiungibilità: la vicenda del ponte – unico modo di accesso a Civita da Bagnoregio, come dal resto del territorio – assume così crescente rilevanza, tanto da fare dell’inaugurazione della nuova struttura di cemento armato nel 1965 un evento dal rilievo politico largamente eccedente le dimensioni demografiche coinvolte.
E tale evento è di rilievo politico, anche nella prospettiva di Attili. La costruzione del ponte ci conduce alla seconda parte del volume – che può essere considerata quella centrale, quella che più lo definisce – dedicata al ripopolamento (selettivo) ed alla risignificazione della città attraverso un campo di pratiche e di discorsi dominati da una figura specifica (qui siamo nel territorio come storie, di cui parlavamo in apertura). Si tratta di Astra Zarina, un architetto estone-americano la cui scoperta di Civita ne plasmerà il destino tanto da essere il preludio necessario alla terza parte del volume, dal tono decisamente più oscuro, dedicata alla turisticizzazione massiva di Civita. Zarina capita a Civita negli anni Sessanta e decide di viverci, acquistando un immobile abbandonato (atto fondativo, in questi casi) e di dedicarsi ad essa trasformandola in un laboratorio del recupero di una civiltà urbana in via di dismissione. Civita diviene la sede di un programma estivo dedicato a studenti di architettura e orientato all’analisi di e intervento su Civita, un’esperienza che permette il costituirsi e l’inspessimento di una nuova comunità di vita trans-locale che mette assieme Zarina, i suoi colleghi, gli studenti e i residui abitanti. Il carisma di Zarina è particolare, e particolarmente efficace: è una figura di esperta che, tuttavia, è in grado di costruire un campo di relazioni dense e credibili (anche perché di lunga durata) con la popolazione locale legittimando così non solo la sua presenza locale ma anche il “discorso” che proporrà su Civita. Qui la questione dei saperi territoriali sepolti – nella manutenzione del territorio, nelle tecniche costruttive – è centrale e strategica, si costituisce senza dubbio come un oggetto di nostalgia da parte di quelli che Attili definisce i “naufraghi dello sviluppo” (naufraghi culturali, sin intende, non certo economici) che a certe condizioni può essere esplorato per costruire delle pratiche che ricostituiscano uno spazio sociale, fra lei, i suoi compagni di strada e i vecchi abitanti. Attraverso tale discorso, la sua presenza svolge poi una funzione strategica anche per il processo di ripopolamento, attraverso l’attrazione precoce di una domanda di bi-località da parte di una frazione dei ceti superiori urbani, che a partire dagli anni Settanta prende a generare effetti di un qualche rilievo. Quello che propone Zarina è un processo di riterritoritorializzazione attraverso un radicamento di risorse esterne che, tuttavia, non sembra rispondere ad una volontà di sostituzione (facilitata in questo dalla scarsità stessa dei “rimasti”). Ma è anche una congiuntura precaria, e forse effimera sul medio periodo, che tuttavia permette effettivamente l’incontro di gruppi sociali diversi, e straordinariamente distanti.
Infine, nella terza parte Attili ricostruisce la vicenda della turisticizzazione massiva di Civita che rappresenta l’approdo estremo di un processo di risignificazione che nell’arco di pochi decenni la conduce da una condizione di marginalità pressoché assoluta ad una nuova, paradossale centralità. Tale processo è costellato e per certi versi anticipato da episodi diversi. Negli anni Ottanta, sull’onda di una di quelle improvvise e apparentemente casuali configurazioni di attori pubblici e privati tipiche delle politiche territoriali in Italia, si propone la ristrutturazione integrale del borgo facendo leva su discorsi allora relativamente emergenti su innovazione tecnologica e valorizzazione del patrimonio. Il progetto, che implicava l’esproprio integrale del patrimonio, muoveva dalla tipica forma di rappresentazione selettiva – Civita come borgo ormai integralmente abbandonato – funzionale a giustificarne l’aggressiva ristrutturazione che, tuttavia, permetterà per la prima volta la costituzione di Civita quale oggetto conteso. Il progetto non sarà mai realizzato, in gran parte per l’opposizione del nucleo di “ripopolatori” guidato da Zarina che sarà in grado di proporre un discorso alternativo. Poi, negli anni Novanta e poi Duemila arriva l’ora del turismo, prima occasionale e scarsamente organizzato e poi massivo in una forma tale da rendere apparentemente impossibile qualsiasi resistenza. Fra il 2008 ed il 2017 le presenze passeranno da 42.000 a 800.000, e nel weekend di Pasqua dello stesso anno Civita avrà più visitatori del Colosseo. A sostenere questa ascesa vi saranno tutte le consuete figure delle strategie di turisticizzazione: la candidatura quale sito Unesco, l’aggressiva strategia di branding territoriale, la completa e assurda funzionalizzazione dello spazio urbano ai flussi turistici che arrivano a includere il turismo crocieristico delle gite giornaliere da Civitavecchia (ed a vietare i cortei funebri perché ostacolano i flussi turistici). Quella che trasforma Civita in un oggetto di consumo è, argomenta Attili, una “epidemia dell’immaginario”, e di un immaginario tanatoscopico (Civita diventa “la città che muore”) cha ha un successo tale da imporre l’introduzione di una tariffa per l’accesso al borgo che, travestito da misura di contenimento dei flussi, si rivelerà invece una misura viceversa a sostegno del loro potenziamento, attraverso la rappresentazione di una “scarsità” ed “esclusività” che rafforzeranno ulteriormente la desiderabilità della “esperienza” Civita (che ormai, di esperienza, avrà ben poco e molto di più di rapido consumo di una messa in scena). Civita diventa sempre di più Civita “di Bagnoregio”, nel senso di un possesso di Bagnoregio e della sua amministrazione che la impiegano per estrarne risorse sempre più consistenti e sempre più preziose in un clima di austerity e di persistente spopolamento (a Civita rimangono oggi dieci abitanti, e quaranta abitanti bi-locali) che inizia a coinvolgere anche gli abitanti bi-locali, a causa degli ovvi effetti che il turismo di massa ha sulla qualità della vita.
Giunti alla fine della lettura alcune questioni si impongono. Come ovvio, la prima è quella del turismo e di come trattarlo. Verso la fine del libro si apprende che Civita è stata considerata un modello di successo da importanti esponenti politici nazionali, circostanza che ha dell’incredibile e che testimonia quanto il turismo in Italia si sia imposto come economia “naturale”, una realtà auto-evidente che non necessita di ragioni, giustificazioni, discussioni. La retorica del Paese “giacimento”, che potrebbe vivere solo di turismo e di “eccellenze” del territorio – una retorica grandemente ingannevole che occulta strategicamente la composizione reale dell’economia italiana – ha il consenso di una maggioranza ampia e decisiva di attori politici, sociali e soprattutto dei media. Da questo punto di vista il libro di Attili rappresenta senza dubbio anche un indice dei problemi che andrebbero discussi: se il limite al turismo ed alla turisticizzazione si impone per tante ed evidenti ragioni – ecologiche, di qualità del lavoro, di complessiva qualità delle condizioni territoriali – come evitare che tale limiti si trasformino in un progetto di classe che lo limiti nuovamente ai ceti superiori? E se il turismo capitalizza sulle pratiche e le politiche di ricostituzione del passato come orizzonte di senso per le pratiche territoriali nel presente a quali condizioni è possibile costruire tali pratiche in una forma che non sia né il sostrato inevitabile per strategie di turisticizzazione di massa, né una forma di colonizzazione da parte dei ceti superiori certo alternativa alla turisticizzazione ma che costituisce egualmente una forma di estrattivismo, sebbene più elitario, da quel dato territorio? La vicenda di Zarina è da questo punto di vista di grande rilievo, sia per quanto è riuscita costruire – ovvero una vera comunità di diversi, animata da un principio di cura – sia per la precarietà e fragilità della sua traiettoria. In un Paese in vistosa contrazione demografica, non tutto il passato depositatosi nel nostro palinsesto territoriale sarà oggetto di riscoperte e riscritture. Ma per quella parte che invece lo sarà, per una varietà di ragioni e condizioni, la traiettoria di Civita descritta da Attili è materia viva e bruciante delle feroci alternative per quelle comunità locali che oggi lottano fra il rischio dell’abbandono e la possibilità concreta che per allontanarlo debbano pagare un prezzo altrettanto elevato, quello della perdita.