A Parma, nell'autunno del 1917,
s'incontrano due allievi ufficiali con ambizioni letterarie. Il più anziano, un genovese di ventuno anni,
si chiama Eugenio Montale, cha già
scritto i versi di "Meriggiare pallido
e assorto"; il più giovane, un diciottenne torinese di ascendenze emiliane, è Sergio Solmi, attratto dagli
opposti esempi di Gozzano e Rimbaud. Poco dopo, Montale viene
mandato in Vallarsa, ricordata negli
"Ossi" e nei "Mottetti", mentre Salmi combatte sul Montello, in un paesaggio veneto evocato a più riprese
in prose liriche e poesie. Ma intanto
l'incontro ha suscitato un'amicizia
che durerà per l'intera vita di entrambi, cioè fino a quel 1981 in cui il
poeta-critico e il critico-poeta si spegneranno a meno di un mese di distanza l'uno dall'altro. Di questo legame, che ha avuto un'importanza
non trascurabile nella storia letteraria del nostro `900, offre oggi una testimonianza preziosa "Ciò che è nostro non ci sarà tolto mai", un volume Quodlibet curato da Francesca
D'Alessandro e Letizia Rossi, che
raccoglie 338 lettere scambiate dai
due amici tra il 1918 e il 1980 (la maggior parte di Montale, perché molte
di Solmi sono andate perdute) più
un'appendice di testi giornalistici
non firmati e attribuiti agli autori
grazie al carteggio.
Il grosso delle lettere risale al periodo che va dal '25 a quel 1933 in cui
Eugenio conosce altri due interlocutori cruciali, Gianfranco Contini e
Irma Brandeis, protagonista dei
suoi versi stilnovisti. La complicità
tra i ragazzi scampati alla carneficina, afflitti dalla "bolletta" e da malanni psicosomatici, si fonda su una
comune tendenza alla moderazione
e all'empirismo. Di qui l'iniziale diffidenza per Gobetti, che a un Montale già abituato a vivere "al cinque
per cento" sembra un tuttologo iperattivo, e il misto di ammirazione e
fastidio con cui parlano di un altro
coetaneo, Giacomo Debenedetti, fin
troppo brillante ma al contrario di
loro instabile, volubile, poco equilibrato. La differenza tra Eugenio e
Sergio emerge però dai modelli saggistici che oppongono alle astrazioni dell'idealismo: il primo sceglie il
conservatore Emilio Cecchi, che riduce ogni tema a dimensioni domestiche, il secondo Alain, che ha orizzonti umani più vasti e mostra un
più radicale impegno etico. Se l'atteggiamento di Montale, quasi ricalcando la parabola di Cecchi, passa
dagli eccessi romantici a un malizioso understatement, Solmi mantiene
un tono costantemente affettuoso e
misurato: il suo è l'equilibrio di chi
si è adattato presto alla provvisorietà della vita, e sa stare con "i piedi a
terra e il capo tra le nuvole", come
annota il suo corrispondente e come
ripeterà Saba in una famosa "scorciatoia". Già a vent'anni, Eugenio si
sente montalianamente un "vecchissimo fanciullo", inetto sia sul
piano pratico sia su quello spirituale, mentre Sergio si rassegna a studiare da avvocato. Ma nel frattempo
tutti e due s'affacciano sulle riviste
letterarie, confortandosi e aiutandosi a vicenda. Dopo aver fatto conoscere al pubblico Italo Svevo, Montale segnala più volte all'amico degli scrittori degni di essere discussi,
da Moravia a Loria; e se nel `25 Gobetti pubblica "Ossi di seppia" è anche grazie a Solmi.
A questa altezza i due intellettuali, che si preparano a convivere con
la dittatura da "bigi", ossia da non
allineati, iniziano a trovare la loro
identità: Eugenio, appunto, con il
suo primo capolavoro, e Sergio mettendo su famiglia, trasferendosi a
Milano ed entrando alla Banca Commerciale, dove il cugino Raffaele
Mattioli influirà sia sulla sua attività impiegatizia sia su quella critica.
Montale invece riscuote uno stipendio solo nel '27, emigrando a Firenze, dove lavora alle edizioni Bemporad e diventa poi direttore del
Vieusseux. Si diradano allora, lettera dopo lettera, i nomi dei sodali liguri, come Adriano Grande e Camillo Sbarbaro, e s'impongono quelli
delle Giubbe Rosse e di "Solaria", i
Vittorini e i Quasimodo. Termometro sensibilissimo della situazione
culturale e tattico di notevole astuzia, Eugenio tesse presto una rete di
relazioni italiane e internazionali.
Quando si tratta di politica letteraria, i suoi messaggi a Sergio assumono una perentorietà quasi militaresca. Ma l'amico è per lui soprattutto
il lettore di fiducia a cui chiede di
correggere le poesie appena scritte.
E in realtà entrambi i corrispondenti sanno dare l'uno dell'altro giudizi
illuminanti. Solmi comprende subito che Montale vuol superare il
frammento tramite un'eloquenza
che non rimandi a D'Annunzio; e
Montale nota che i versi di Solmi
soffrono di un eccesso di coscienza,
di una uniformità priva di attriti un
po' alla Cardarelli. Quanto al versante critico, secondo Montale Solmi è il migliore dei "militanti", perché con la sua ragionevolezza pacata sa mettere "ordine dappertutto";
e Solmi loda fin dall'inizio la spigliatezza di Montale negli articoli
brevi, indovinando che questa dote
potrebbe procurargli "una sistemazione pratica", come avverrà molti
anni dopo quando l'amico lo raggiungerà a Milano impiegandosi al
Corriere della Sera.
Ma al di là della luce che getta sui
due autori, il carteggio è una miniera di osservazioni acute su fenomeni
culturali che ci riguardano ancora.
Concludiamo citandone una di Montale. Nel '33, al ritorno da un viaggio
in Inghilterra, proprio mentre compone alcuni dei suoi versi più celebrati, Eugenio scrive beffardamente
a Sergio: `Leggendo un po' più del
solito in inglese mi sono persino convinto che la nostra è la più recente
delle lingue morte e che una buona
colonizzazione barbarica qui risolverebbe tut