Uno dei grandi naufragi della Modernità avviene tra il luglio e l’agosto del 1643, quando una nave che fa rotta verso i mari del sud si incaglia nelle trame della barriera corallina, davanti alle isole Salomone.
Così un nostro contemporaneo ‘postumo’, Umberto Eco, nel romanzo L’isola del giorno prima (1994) immagina la fine della Modernità e l’inizio del «tempo sospeso» della post-modernità, che il callido semiologo, nel mondo possibile della finzione narrativa, concepisce come una nave, la Daphne, incagliata davanti a un‘isola da cui la separa una linea immaginaria – il Meridiano Antipodo –
lungo la quale finisce un giorno e ne inizia un altro. Così, «sospeso» nello spazio e nel tempo, smarrito, l’uomo-naufrago sulla nave si scopre senza alcun «punto fijo» nel sestante impazzito del tempo. Insieme alla capacità di comprendere e di decifrare il mondo attraverso i dispositivi, le nozioni e gli strumenti che ha a disposizione, precipita e si inabissa anche l’«enciclopedia» di riferimento, la cui perfetta circolarità si dissolve dinnanzi al caos e alla complessità del mondo.
Il diario di Roberto De la Grive, il naufrago del romanzo di Eco, è assai simile al «mamafesta» di Anna Livia Plurabelle, il misterioso «memoriale» ritrovato dalla gallina Biddy Doran sopra un mucchio di letame nel V capitolo del primo libro di Finnegans Wake (1939) di James Joyce, quella «suprema sintesi verbale del Creato» costruita dall’autore dell’Ulysses attingendo a oltre quaranta lingue. Come il diario del naufrago echiano, che inventa, nella variatio dei punti di vista e dei piani narrativi, infiniti mondi possibili attraverso i quali il reale può essere concepito e descritto, così
il memoriale joyciano «[…] untitled mamafesta […] has gone by many names at disjointed times» [FW, 104.4-5] – «è passato sotto tanti nomi in tempi fuor di sesto» (così traduce Luigi Schenoni) – ed assume una natura aleatoria e indefinibile, al di là di una sua individuazione, ma anche contraria al regolare scorrere del tempo.
Il «tempo sospeso» di Eco e i «disjointed times» di Joyce interpretano la forma della crisi che attraversa la contemporaneità, che ha il suo punctum nel celebre verso «time is out of joint» dell’Amleto di Shakespeare – «il mondo è fuori squadra» – verso su cui si è concentrato Derrida in Spettri di Marx (1994), facendo notare che Gide, nella sua traduzione francese, rende l’espressione con «la nostra epoca è disonorata», in quanto anche la lealtà dipende dalla memoria e dalla documentalità.
Sulla forma della crisi e sull’«apocalisse estetica» del nostro tempo indaga il recente, denso e ottimo studio di Giuseppe Frazzetto Nuvole sul grattacielo. Saggio sull’apocalisse estetica (Quodlibet Studio, 2022), nel quale l’autore, che ha pubblicato fondamentali lavori sulle implicazioni fra dinamiche sociali, nuovi paradigmi estetici e forme di rappresentazione del mondo (cfr. G. Frazzetto, Molte vite in multiversi. Nuovi media e arte quotidiana (2010); Epico Caotico. Videogiochi e altre mitologie tecnologiche (2015); Artista sovrano. L’arte contemporanea come festa e mobilitazione (2017), convoca l’irrevocabile del nostro tempo.
Il saggio, impreziosito da una prefazione di Monica Ferrando, nella plasticità euristica e nella trasversalità disciplinare che lo fecondano, fluisce come una partitura musicale in continua tensione, articolando in una conflittualità penetrante e dinamica riflessioni estetiche, ricognizioni antropologiche e storico-filosofiche, incursioni epistemologiche, argomentazioni e tensioni consegnate a tre capitoli (Novissimo estetico, Immagini, Narrazioni) annunziati da un
Prologo in forma di mito e ‘sospesi’, a mo’ di congedo, da una Pausa in forma di mito.
In Nuvole sul grattacielo Frazzetto si fa infaticabile geografo della complessità e dell’inafferrabilità del senso del reale. Egli solca l’ἀόριστος, l’indeterminato attuale, ricorrendo ai paraphernalia che gli consentono di individuare accessi, nodi, ‘connessioni’, pieghe e ferite: insomma, quelle ‘risonanze’ (Anklang), o riverberi – il «sinthome» lo definisce Lacan nel Seminario XXIII a proposito di Joyce, situando nella parola
il «punto di non ritorno all’antico», colto nel nodo borromeo del definitivo corto-circuito tra il reale e il simbolico – che giungono da una realtà in continua e incessante trasformazione, in una condizione ad un tempo di saturazione e di proliferazione rizomatica di pratiche, di saperi e di tecniche nella quale i grandi sistemi di ordinamento e di orientazione del mondo sono entrati in
crisi. Siamo di fronte all’«interdetto» dell’ultimo Heiddegger, che postula l’inafferrabilità (Begriff), l’imprendibilità dell’ente e del pensato.
In tale contesto, asserisce Frazzetto, «il sintagma Nuvole sul grattacielo fa cenno alla situazione odierna, in cui la produzione di immagini è diventata un problema che riguarda tutti, non soltanto gli artisti. Siamo tutti mobilitati verso un’attività «creativa».
Scardinati i miti del progresso, della razionalità e della salvezza, all’individuo, al Singolo, sedotto dalle nuove ritualizzazioni, dagli idola dei tribalismi tecnologici e dall’attitudine sciamanoide propalati dai dispositivi del Collettivo, rimane la fascinazione occulta e disorientante di una scheggia di un’inquadratura del film Matrix dei fratelli Wachowski, in cui si scorge
la copertina di Simulacri e simulazione, pubblicato da Jean Baudrillard nel 1981, quasi a testimoniare l’ineluttabile destino della virtualizzazione come dato di fatto e della metafora della Matrice che rende ormai inutilizzabili le categorie del reale per produrre nuovi significati e nuovi concetti.
Scrive Frazzetto: «E così, nei nostri discorsi «occidentali» la parola Apocalisse è divenuta abituale. La si legge e la si sente risuonare con frequenza estenuante in saggi e articoli, in chiacchiere sul web, nei programmi televisivi, insomma dovunque ci sia occasione di esprimere sentimenti. Infatti quella parola allude in primo luogo alla sensazione di vivere «strani giorni»: «l’uomo neozoico dell’era quaternaria» (noi tutti), scriveva Manlio Sgalambro in una canzonetta (Strani giorni, nell’album di Franco Battiato L’imboscata, 1996), avverte d’essere fuori posto. Time is Out of Joint».
L’apocalisse incombe come evento elastico, o, meglio come dimensione aoristica dell’esistenza in cui il Singolo si identifica agonisticamente con il Collettivo lungo la prospettiva di un eschaton imploso, entropico, edulcorato dall’autoriflessività narcisistica che ha ‘fermato’ il mondo nel suo incantamento: «E ancora più profondo di significato è quel racconto di Narciso che, non potendo stringere l’immagine tormentosa e soave che vedeva nella fonte, vi si tuffò e annegò. Ma quella stessa immagine noi la vediamo in tutti i fiumi e negli oceani. Essa è l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita; e questo è la chiave di tutto». Così Melville nel suo Moby Dick, lungo il crinale di una doppia filiazione che – da Hegel, Kojéve, Heidegger, Sartre da una parte, e Saussure, Jakobson, Levi-Strauss, Althusser dall’altra – esprime la condizione storico-filosofica a partire dalla quale si è venuta formando la riflessione sul ‘soggetto-fantasma’ che approderà a Lacan (Seminario XI).
Non c’è più nulla da fare se non creare le condizioni che consentano alla chiamata dell’Essere di giungere a noi oltre il rumore del mondo (cfr. U. Galimberti 1988).
Rumore e foschia attraversano il tempo apocalittico narrato da Frazzetto, declinando quel «brusio della lingua» che già Barthes (1988) aveva colto come segnale inquietante dell’entropia testuale occidentale, sancendo la scomparsa dell’«Autore-Proprietario-Padre» dell’opera e preconizzando l’avvento del prosumer.
La sapiente drammaturgia dell’argomentare di Frazzetto snida l’assurance, la grâce, la bêtise del pensiero circolante, del pensiero che si annulla collassando nel pensato e nel pensante; nel desiderio, o noluntas, che si ingorga azzerando ogni distanza. L’azzeramento della distanza costituisce la fine del pensare, il fallimento di ogni rappresentazione razionale del mondo, avverte Frazzetto seguendo la storica interpretazione di Francastel (1957) dello spazio e della figurazione nel Rinascimento. Da ciò deriva l’impossibilità di ogni
renovatio e di un Rinascimento se non come un «fungo gocciolante di abietta plenitudine», uno «champignon gonflé d’ennui», un «organisme rudimentaire, passif, entravé, suintant d’une abjecte plénitude», come lo immagina
Sartre ne L’Idiot de la famille (1971).
Da un lato assistiamo all’azzeramento della distanza e dei ‘dispositivi’ euristici (le lenti, il cannocchiale, il microscopio, la mappa) che inaugurano la Modernità, dall’altro all’eclisse del sacro, alla scomparsa dello spazio del mistero, alla dissoluzione dell’aura, del rito e del pensiero imaginativo nella società di oggi.
In linea con la riflessione compiuta da Byung-Chul Han (2021), Frazzetto evidenzia, non senza toni caustici, la patologica ricerca di una autenticità fondata sul narcisismo dell’Io che domina la società attuale, insieme allo sfrenato, compulsivo inseguimento del nuovo e dell’inedito e alla bulimia consumistica che pervade ogni ambito relazionale. Il silenzio, il raccoglimento, il senso di sacralità necessari allo svolgimento del rito fondano – come avvertiva l’ultimo Warburg nel fondamentale Il rituale del serpente (1939) –
un legame tra il sé e l’Esterno, tra il sé e l’Altro: i riti oggettivano il mondo, strutturano un rapporto con il mondo, e fondano una comunità su saperi circolari. Osserva Frazzetto: «Si tratta del definitivo, teorizzato, superamento di quel «senso di distanza» che resta la condizione indispensabile a ogni riflessione e contemplazione e di cui Aby Warburg, nel finale del Rituale, denunciava la distruzione. Tale soppressione segnava l’esito a sua volta autodistruttivo cui la modernità, obbligata dalla logica neoliberista nei ranghi dell’emancipazione prometeica divenuta tecnica dispiegata, andava incontro».
Alla crisi dello spazio rituale e al de-potenziamento del conatus euristico corrispondono, nell’analisi di Frazzetto, la «crisi di presenza» come risultato di un processo irreversibile di diluizione dello statuto ontologico e del pensiero istituente che, appunto, si diluisce trasformandosi in un guazzabuglio, un «miscuglio di materiali talvolta parzialmente omogenei» afferenti al vissuto, che Frazzetto indica con il termine «vita-mashup». Rileva lo studioso: «La constatazione del frammentarsi identitario accompagna la contemporaneità fin dal suo primo affacciarsi. Si pensi al ricorrere, nella produzione di E.T.A. Hoffmann, del tema del Doppio e di quello dell’incertezza fra reale e fantastico. […] Qui ci interessa specificamente il rapporto fra il vaporizzarsi della personalità e il visibile. Per alcuni secoli il sistema prospettico garantì (è il caso di aggiungere: in una certa misura) la legittimità d’un punto di vista impersonale e perciò accessibile al pittore, in analogia col sistema di procedure e protocolli volti a garantire la validità d’un esperimento scientifico. […] Infranta la fede nella possibilità d’un punto di vista oggettivo, il soggettivismo cominciò a derubricare sé stesso».
Viviamo immersi nel Solaris, dichiara Frazzetto, con riferimento al celebre film di Steven Soderbergh tratto da un romanzo del polacco Stanislaw Lem, perfetto esempio di «film circolare» (cfr. A. Amoroso, 2012) nel quale la fine coincide con l’origine, il passato con il futuro, la percezione con il percepito.
Solaris è il pianeta sconosciuto dalla superficie fluida, l’oceano, il grande mare che contiene tutta la memoria e tutte le ossessioni del mondo.
Lo sguardo delle presenze materializzate da Solaris è uno sguardo vuoto, trasparente, che non lascia aloni; anzi, rischiara retroattivamente con una luce abbagliante – come non pensare alle apparizioni ‘fantasmatiche’ nella luccicanza di Shining (1980) di Kubrik o alle materializzazioni nel lucore di The Matrix (1999)? – anche il passato. La realtà è scomparsa – il reale è stato riassorbito dalla sua simulazione, prima televisiva e oggi mediatica. L’arte e, più in generale, il pensiero, la letteratura, i media non possono più imitare e riprodurre il reale o uscirne fuori grazie all’immaginario, perché, in quanto scomparso, il reale è stato sostituito da un reale ‘finto’, simulacrale – un reale da science fiction, da gamification. Baudrillard chiamava questa forma di realtà stupida (cfr. Baudrillard, 1980, 1991). Nei termini dello stesso Baudrillard, l’attuale stupidità dell’iper-realtà – come quella del capitalismo e del terrorismo, specularmente globalizzati – sembra essere il risultato di una fatale saturazione, secondo una strategia di s-terminazione attraverso rituali molteplici di seduzione e di fascinazione.
Cosicché, niente è più certo, niente è più definito, concluso, e niente ha più un posto sull’orizzonte azzerato della contemporaneità.
Uno sguardo senza origine e senza orizzonte, in attesa «di ciò che deve venire e presentarsi» (M. Heiddegger, 2006), ma che, in realtà, si manifesta nel sempre attuale del mondo, nell’ansia di apparire, di esserci, di presentarsi, di prestarsi (dal latino prae-stare, ‘stare innanzi’, ‘esibirsi’, ‘offrirsi’).
Come afferma Deleuze nell’Abécédaire (1996), il desiderio è tale solo in quanto si inserisce in un concatenamento, in un flusso di oggetti e non nell’oggetto isolato, in un paesaggio che contiene il molteplice, ed è facile osservare come nella condizione del film nessun desiderio sia più possibile. Per tornare al desiderio, bisogna tornare al paesaggio, all’orizzonte-mondo, non all’origine (che è di per sé sepolta) ma alle tracce di questa origine, ai suoi sintomi.
Tali sintomi Frazzetto individua nelle epiche implose delle narrazioni dei videogiochi e del reale artefatto, laddove avviene lo scambio simbolico tra virtuale e reale, tra gioco e vita. Durante tale scambio, l’elemento ludico viene depotenziato, privato del suo valore attivo, ermetico, plastico, che viene ricondotto a una portata priva di utilità, esausta.
Scrive Frazzetto: «Ma cosa vede senza vederlo, se non per via della fotocamera, il fotografo di Blow-Up di Antonioni? Cosa vedremmo, a Filadelfia, dallo spioncino che lascia vedere al visitatore Étant Donnés 1. La chute d’eau, 2. Le gaz d’éclairage di Duchamp? Cosa «vede», Fellini, nella sua memoria ribaltata in montaggio cinematografico, mostrando il nebbione di Amarcord? Ed ecco, una formalizzazione replicante della vita-mashup è una visione velata, come attraverso una nebbia, appunto, o una nuvola o, più comunemente, mediante la lucentezza offuscante d’uno schermo».
Dalla Pausa in forma di mito, dal lucore dello schermo, affiora una visione: «È ancora lui. Immobile sullo schermo, per un attimo. La connessione è instabile. Il vecchio-giovane sembra un po’ malinconico. Gli chiedo. Risponde: «Una smentita dell’assioma dell’illuso Novecento (vale a dire il diritto di ognuno a vivere non solo la Buona Vita, ma Molte Buone Vite) arrivava dall’esperienza estetica. Sì, in quell’opera siamo tutto, nell’attimo, vi respiro dentro, anzi potrei insistervi respirandola come fosse aria del mattino in un orizzonte azzurro e tuttavia pieno di stelle…».
Lui è L’Uomo pacifico de L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello. Ha «perduto il treno», «si è impantanato in una notte oscura» dove, adesso, si ritrova épuisé, esausto, come l’«uomo concettuale», l’ultimo uomo possibile che Deleuze materializza nel saggio del 1991.
Frazzetto lo ha davanti a sé, sullo schermo. Seduto, impossibilitato a muoversi, è «stanco di qualcosa», ma «esausto di niente». Lui è la frontiera.
Su questa frontiera, come su una piega, si propizia l’incontro con Beckett de L’innominabile (1953) e di Watt (1953), che fa rifulgere il pensiero deleuziano nell’ardua ricerca di Frazzetto, in quel «fallire meglio» nell’esaurire tutto il possibile immaginabile. Prometeo ha abdicato. Il nostro, è il tempo di Epimeteo.
«Ma la connessione torna ad affliggerci. Lo vedo scomparire, sebbene sia ancora lì, trasformato in un ammasso caotico di pixel. Così il vecchio-giovane, saggio e ingenuo, di nuovo si lascia essere invisibile nel visibile».
Bisognerebbe, dunque, saper preservare l’invisibile nel visibile, in quanto questo solo «è l’autentico parlare… » (M. Heiddegger,
1988).