Recensioni / Corrado Claverini, La tradizione filosofica italiana. Quattro paradigmi interpretativi

Il libro di Corrado Claverini –giovane ricercatore in filosofia all’Università di Salerno –ha sicuramente due pregi: gli obiettivi di fondo che la ricerca si propone, e la chiarezza espositiva che rende tali obiettivi immediatamente comprensibili. Riguardo agli obiettivi di fondo, l’autore cerca di (ri)costruire la genealogia di una presunta “tradizione filosofica italiana”, oggi inverata –termine che ricorre ossessivamente nel saggio –nell’italian thought, ovvero della (anche qui, altrettanto presunta)linea di continuità del pensiero filosofico italiano, almeno quello della seconda metà del Novecento. Tale linea di continuità, che il saggio si sforza di confermare pur concedendo pubblicità ai suoi numerosi critici, serve a Claverini per affermare un’altra tesi di fondo, probabilmente la principale di tutto il lavoro: l’inevitabile specificazione storico-geografica del pensiero filosofico. Le idee sono sempre frutto di un determinato contesto, e questo non toglie alle stesse idee la loro qualità veritativa e universale. È possibile dunque rintracciare una tradizione di pensiero nazionale, ma il fatto di essere locale – ovvero derivare, appartenere, e rispondere a stimoli materiali concreti, storicamente determinabili – non la rende per questo nazionalista, localista ed escludente. Ancor meno queste idee, per il fatto di essere storicizzabili, debbono essere interpretate in senso storicistico, cioè errori transeunti e necessari. Ma quali sono le caratteristiche fondamentali di questo italian thought, e di cosa si comporrebbe questa tradizione filosofica?
L’origine, anzi: la genealogia, come insiste l’autore, del pensiero filosofico italiano (italiano nel senso di specificatamente collegato a una dimensione storico-territoriale) va individuata nel rivolgimento umanista-rinascimentale, che rompe con la scolastica medievale e con l’ipse dixit aristotelico o metafisico. Lorenzo Valla e Marsilio Ficino, Tommaso Campanella, Niccolò Machiavelli e Giordano Bruno, fino a Gianbattista Vico. La «circolazione europea» ditale pensiero –secondo la tesi di Bertrando Spaventa, sostenuta in questo dall’antiquissima sapientia vichiana –avrebbe anticipato e, in qualche modo, generato le più coerenti sistemazioni filosofiche continentali, da Cartesio a Kant. Tale pensiero a-sistematico ma privo di eclatanti soluzioni di continuità, sarebbe caratterizzato da «una costante vocazione etico-civile», per Eugenio Garin, un «impegno civile [che] ha sempre prevalso sull’accumulazione concettuale», secondo Carlo Augusto Viano (p. 98). Insomma, l’autore utilizza il pensiero e l’azione di selezionati filosofi per stabile il carattere «mondano» della filosofia italiana, almeno quella appartenente a questa “tradizione”, una tradizione che presterebbe notevole attenzione alla dimensione umanae storica, militante, un pensiero dunque che si traduce immediatamente in presenza nel mondo, in azione, una «filosofia della prassi» che tiene uniti Niccolò Machiavelli, Giovanni Gentile, Antonio Gramsci e, seguendo tali rami, inverandosi nell’italian thought odierno. Una filosofia che non è mai soltanto filosofia, ma diventa pensiero politico, presupposto morale o, addirittura –se pensiamo allo storicismo togliattiano, anch’esso pienamente dentro tale line di continuità –tattica parlamentare.
L’autore, al fine di dimostrare la tesi suesposta, utilizza quattro «paradigmi»: Bertrando Spaventa, Giovanni Gentile, Eugenio Garin e Roberto Esposito. La scelta è interessante soprattutto perché i quattro autori abitano epoche diverse e sostengono tesi tra loro non sovrapponibili. Tant’è che proprio Garin affermerà non solo l’inesistenza di una presunta linea di continuità filosofica nazionale, ma che se tale linea dovesse essere rintracciata, se tale orientamento ideologico dovesse ricavarsi dallo studio dell’intellettualità italiana,

«ebbene questo orientamento è sempre esistito, ed è un certo spiritualismo di maniera, ora speculativo, ora soltanto retorico e pedagogico, che scomunica, dovunque appaiono, positivismo, empirismo, materialismo, utilitarismo, comefilosofie volgari, anguste, mercantili, impure» (p. 91).

Sulla scorta delle acute parole di Garin veniamo dunque a ciò che non quadra della ricostruzione del giovane Claverini. La linea di continuità presentata dall’autore è discrezionale (come direbbe Claverini stesso, è ideologica e non filologica, mira ad affermare una tesi più che a dimostrarla storiograficamente): essa presenta una parte della tradizione idealistica italiana, più che genericamente “filosofica”. Ancor di più, una tradizione che non è soltanto idealistica, ma storicistica. Ma se questo è il metro, altri autori avrebbero potuto e dovuto affiancare il percorso presentato. Se non vogliamo citare il solito binomio Croce-Gramsci (d’altronde inflazionato), almeno Antonio Labriola, punto di trapasso della filosofia italiana dall’idealismo al materialismo storico. Nella ricostruzione presentata i salti storici (e logici) avvengono con eccessiva imprudenza. La crisi dell’idealismo negli anni centrali del Novecento, di cui pure parlava con avvedutezza Garin, scompare, così come la sua problematica riaffermazione negli anni sessanta, sulla scorta dei ragionamenti di un altro grande pensatore-filosofo come Sebastiano Timpanaro (e a proposito di Timpanaro, perché non affermare il valore filosofico delmaterialismo leopardiano, coevo e alternativo all’idealismo soggettivo qui amplificato?). La linea di continuità è dunque solo immaginaria, procedendo invece attraverso fratture e ripensamenti, connessi questi alle evoluzioni della società italiana nel vorticoso trentennio post-Liberazione. L’inveramento neo-idealista e anti-umanistico dell’ultimo trentennio (da Agamben a Cacciari, da Tronti allo stesso Esposito) è solamente uno dei filoni. Di sicuro, però, il più noto (noto ma non originale, risolvendosi spesso in una glossa di Foucault, Deleuze, Guattari, Derrida). Il motivo di questa fama (soprattutto internazionale, soprattutto nord-americana) può essere ricavato dalla stessa definizione data da Claverini per il pensiero filosofico italiano tout court: il suo essere cioè un pensiero a-sistematico, politicamente impegnato, disponibile ad ibridarsi laddove lo esiga una prassi conflittuale. Questa è la vera forza del “pensiero italiano”, ed è una sua notevole qualità: rendersi disponibile, proprio per questa sua intrinseca mancanza di sistematicità e di profondità concettuale, ad intrecciarsi ed essere usato nella lotta politica, nella mobilitazione ideale, in alcune lotte di classe, riformulando quella “autonomia del politico” che giustifica l’affermazione dei soggetti. Una forza che l’ortodossia marxista, paradossalmente, ha storicamente avuto con difficoltà (data la sua svalutazione del soggetto), e che oggi ha sempre meno. L’italian thought – che peraltro si afferma in un processo di “coerentizzazione” esterno, prodotto dalla ricezione avuta da taluni filosofi italiani nelle facoltà nord-americane e di rimando sistematizzato –presenta allora alcuni caratteri determinanti: il suo rapporto conla tradizione neo-idealistica europea; il rifiuto della dimensione dialettica della realtà, dell’esperienza e della conoscenza; la sua natura ibrida, a-sistematica e addirittura, per certi versi, a-concettuale; la possibilità –data proprio da tali caratteristiche –di farsi idea-forza dell’opposizione allo status quo liberale, essere cioè pensiero “resistente”, capace di articolare un certo nichilismo, che pure lo nforma, in proposizione politica fondata su alcuni lemmi mitopoietici di notevole fortuna (biopolitica, impero, nuda vita, comune, esodo eccetera). Come afferma giustamente lo stesso autore,

«gli interpreti della tradizione filosofica italiana hanno insistito tutti sull’effettualità di un pensiero che proclama esplicitamente il primato della ragion pratica su quella teoretica. La filosofia italiana è stata sempre una filosofia dell’immanenza, della critica dei poteri e dei saperi, della concretezza storica e politica» (p. 131).

Questo, se vogliamo, il vero nesso che accomuna Rinascimento a Risorgimento, come nuovamente afferma Claverini dimenticandosi sintomaticamente della Resistenza come ulteriore momento di costruzione di una nuova idea di nazione e di democrazia. Tutto al fine di edificare una visione del pensiero che possa, al tempo stesso, essere nazionale e «cosmopolita», patriottica ma non sciovinista, anti-«globalista» senza per questo ricadere nel vizio nazionalistico. Un intento pregevole e condivisibile, in un epoca dominata dalla dialettica speculare sovranismi-sovranazionalismi acritici.

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