Recensioni / E la psicoanalisi non capì la «fame d'anima» di Ellen

Biografia è anche nemesi? Può esistere un tratto restitutivo, riparatore, nella riscrittura di una vita? Quando un'esistenza - non soltanto nel suo svolgersi e dipanarsi come trama, narrazione biografica: anche nel suo valore simbolico retrospettivo - mostra nel perdurare della risonanza il suo essere stata oggetto di un torto, può chi la riporta alla luce e la racconta, riparare almeno in parte a quel torto? La filosofa Antonella Moscati parte da questa domanda e intenzione per occuparsi della vita di una giovane donna tedesca, Ellen West, e della sua grave patologia anoressica che l'ha condotta sino alla morte volontaria un secolo fa, nella primavera del 1921.
Ellen West. Una vita indegna di essere vissuta (Quodlibet, pagine 150, euro 15,00) è una ricognizione accorata e febbrile, dolente ma lucidissima, insieme partecipe e distaccata nei confronti del personaggio, come questi fosse protagonista di un romanzo, anziché della sua propria vita. Un saggio che spaziando tra rigore della ricostruzione, profondità della riflessione filosofica e acume della rilettura di un'anamnesi clinica-psicoanalitica, si spinge sino a collocare i disturbi della personalità legati agli squilibri alimentari in una più globale considerazione sul presente, sul possibile rapporto che attraverso il cibo ci è dato intrattenere con il pianeta e il mondo. Prima ancora, una biografia che trova perfetta misura di prossemica tra autore e oggetto/ soggetto del suo studio. Perché quella attuata nei riguardi della giovane EllenWest è, da parte di Moscati, qualcosa di più della comprensione (finanche la più empatica) necessaria alla scrittura di una biografia: è imperativo etico alla riparazione, tentativo postumo di colmare un vuoto diagnostico e interpretativo, sforzo retrospettivo di riparare al malinteso creato dai "biografi" terapeuti di questa giovane paziente.
Ellen West fu in cura presso Ludwig Binswanger, che a lei e al suo "caso" dedicò diverse pagine, nonché "osservata speciale" da Alfred Hoche, direttore della clinica psichiatrica di Friburgo vicino alle teorie pioniere di quella che sarà, di lì a non molto tempo, l'eugenetica nazista. Incompresa dai suoi terapeuti, sovraesposta a diagnosi via via più ineffabilmente teoriche, e invece mai interpretata né ascoltata davvero nel suo disturbo rispetto al cibo, eloquente di un più profondo disagio esistenziale, Ellen West possedeva altresì, tra le altre sue intelligenze, quella di una disamina circa sé stessa e le proprie patologie spietatamente acuta, instancabilmente sincera. Dal tessuto delle molte pagine dei suoi diari, epistolari, poemi (l'opera completa è uscita in Germania nel 2007), Antonella Moscati sa estrarre il filo prezioso di una capacità autodiagnostica eccezionale nella solitudine della propria intonazione. Con la pietas che potrebbe essere di un narratore, la filosofa/biografa si addentra nell'ascolto di questo lungo, acuto grido lanciato nel deserto di uomini affetti da accanimento clinico-terapeutico, quanto sordi a una complessità bisognosa di ascolto ben più che del nutrimento del cibo. Un grido raccolto e dipanato cent'anni più tardi con un'attenzione capace di scandagliare tutte le pieghe di un buio psichico.
Se è vero che il caso EllenWest racconta «il "destino" di non voler essere sé stessi e insieme il suo correlato, il voler disperatamente essere sé stessi» (Binswanger), questo ampio racconto biografico di Antonella Moscati restituisce voce a quel destino: ne incarna ogni anelito e ogni crisi, tutta la sofferenza, restituendogli il timbro della sua vera voce. Perché quel che la vicenda clinica di Ellen West più descrive, è la «parabola ostruttiva» di un eccesso di consapevolezza: «Credo che la vita mi sia così difficile, perché tutto ciò che dovrebbe andare avanti automaticamente è diventato un atto di pensiero, un agire consapevole o meglio un pensare cosciente», annota la giovane nelle pagine più dolorose dei suoi diari. E della vicenda di tale consapevolezza di un terribile malessere, Moscati sa fare un racconto senato e sempre partecipe, ricostruzione che man mano si fa disamina attraverso la quale la sua protagonista diviene infine sé stessa. Finalmente non più «come se fosse un'altra», non un caso clinico deviato da eccesso di teorizzazioni e convergenze astratte di interessi teorici divergenti. Vita, piuttosto. Vita ri-narrata così da rompere il muro di silenzio di una «incerta biografia». Storia di un disturbo della fame che condensa tutta la «fame d'anima» che quello stesso disturbo ingloba. Con tutto lo sforzo che per un biografo comporta un percorso esistenziale coraggiosamente riattraversato e ricalibrato, tanto da essere restitutivo: «Perché dedicarsi alla storia di qualcun altro stanca, come il camminare nella sabbia alta e asciutta o il nuotare contro la corrente, affaticandosi per niente. Ma nella vita, come nello studio, il niente non esiste, c'è sempre qualcosa che ci resta fra le mani o nelle pieghe dell'anima».