Quando si legge un
libro come il nuovo
saggio di Franco
D'Intino, L'amore
indicibile. Eros e
morte sacrificale nei
Canti di Leopardi
(Marsilio, 2021), si ritrova fiducia in
quell'umiliata disciplina che si
chiama critica letteraria e vien voglia di dire ai critici letterari di non
starsene più rintanati in qualche
angolino, resistendo o annullandosI, ma di tornare a credere nella loro
missione, certi di essere ancora utili
in questo mondo digitale che spesso e volentieri non sa che cosa siano
la critica e la letteratura.
Spingendo il suo pluridecennale interesse per Leopardi in zone
vergini (ed è eccezionale, e dunque
tanto più meritorio, che un'attenzione possa restare così vigile e capace di tirar fuori altri aspetti dopo
tanti annidi abitudine a Leopardi),
D'Intino insegna una volta di più
che la scrittura è anzitutto pensiero,
e che il pensiero non si esprime in
asserzioni chiare e tonde, inprodami, in quello che è stampato sulla
pagina. Il pensiero di un autore (di
un classico, meglio) tende a nascondere le sue scaturigini, procede
di cancellazione in cancellazione,
cambia programmi nel momento
stesso in cui sembra più diligentemente votato ad attuarli. Proclami
potranno anche essercene, ma non
saranno la sede vera e propria del
senso. Quel che un testo dice è sempre meno di quel che prova a dire e
si ritrova a significare, per quanto
chiaramente ed esaustivamente
sembri pronunciarsi. C'è tutta
un'ombra del testo che sfugge e in
cui pure occorre spingere gli occhi,
perché da li verranno grandi rivelazioni. Ecco dove sta l'utilità del critico letterario: nell'indicare i percorsi misteriosi del senso, ovvero,
la struttura segreta, le parti rimosse, il rovescio dei libri (che sono,
poi, la vita umana che parla); nell'indicare perfino le omissioni e le
lacune di cui non esiste tutto sommato prova documentaria definitiva e che però vanno ammesse, se e
come la riflessione suggerisce.
Nel caso che D'Intino esplora
l'ombra, o almeno quel punto
d'ombra dove ha stabilito di inoltrarsi, custodisce l'archetipo delsacrificio. Adesso sappiamo - e non
potremo né dovremo mai più ignorarlo -che i Canti di Leopardi muovono da questa essenziale nozione:
che la mia morte salverà te, darà ate
la vita, come è per gli eroi antichi e
come fissa una volta per tutte la
canzone All'Italia, che apre la raccolta. L'«amore indicibile» del titolo è l'eros tra valorosi, tra gloriosi,
che molto deve al Platone del Simposio. I Canti stessi, in conclusione,
sono la salvezza che il poeta dona a
noi lettori; sono, appunto, il suo sacrificio. D'Intino arriva a questa
scoperta attraverso una minuziosa,
quasi chimica analisi delle parole,
che gli è consentita da una conoscenza davvero impressionante
dell'opera e della biblioteca leopardiana (fisica e mentale), mettendo
in relazione questo con quello, seguendo il faro delle più fievoli spie,
e attirando in uno stesso spazio
gravitazionale non solo vari settori
della poesia leopardiana, compresi
i meno frequentati dalla critica o dal
lettore esperto (come i versi giovanili o quelli esclusi), ma anche fonti
classiche di cui non si era intesa finora la determinante influenza. Un
esempio il libro nono dell'Eneide,
quello di Eurialo e Niso, gli amici
che muoiono l'uno per l'altro e rivivono secoli dopo nell'epica. Credo
che solo adesso sia evidente quanto
debitore sia Leopardi a quel certo
Virgilio erotico, e quanto complesso, fondamentale e zigzagante sia il
suo virgilianesimo.
L'archetipo del sacrificio si
declina anche nella variante dell'archetipo persefoneo, su cui si
sofferma la parte centrale del libro,
sviluppando motivi e idee del precedente saggio dello stesso D'Intino La caduta e il ritorno (di cui diedi
conto su questo giornale 1116 giugno 2019). Qui il discorso diventa
più speculativo, e proprio per questo tanto più teso e più coraggiosamente ermeneutico. L'ombra, qui,
è davvero fitta, è letteralmente infera, perché Persefone (o Proserpina, con il nome latino) è, appunto,
la divinità dei morti. Pure lei è una
sacrificata: scende nell'Averno, ma
ridà la vita a sé stessa e al mondo,
portandola primavera. Tanto più
spiegabili, allora, da questa prospettiva misterica (D'Intino non
esita a richiamarsi ai culti eleusini)
diventeranno la struttura dei Canti
e la sostanza di certi componimenti, come la canzone a Silvia (novella Proserpina) o la stessa Ginestra,
il "testamento" di Leopardi, come
si ama dire a scuola.
È vero, però, che non con la
Ginestra Leopardi ha scelto di
chiudere i Canti, ma con una serie
di poesie "minori", o "frammenti".
Perché? Su questo ragiona D'Intino nella terza parte del suo saggio.
Qui mi limiterò a notare che lo studioso, finendo per offrire una lettura complessiva dei Canti e per
mettere nel dovuto risalto testi
"preparatori" come l'Appressamento della morte, ha saputo collegare in un discorso coerente e
sempre affabile, nonostante gli intrichi concettuali che si dà il compito di sciogliere, due delle sue
proposte più valide: la matrice sacrificale-persefonea, appunto, e
l'ipotesi del "tentativo perenne".
Secondo questa lettura, insomma,
Leopardi, da una parte, coltiva il
sogno della durata attraverso la rinascita, ovvero la gloria dell'amore
sacrificale, dall'altra, si impegna a
congedarsi dal lettore riaffermando la bellezza del momento presente, dell'impulso assoluto, in cui
riemergerebbe la pienezza della
sempre inseguita antichità.
Il frammentismo dì Leopardi,
ben lungi dall'esaurirsi nell'expiicit
dei Canti, è una condizione vera e
propria dell'opera totale, che è fatta
e si vuole fatta di moltissimi progetti irrealizzati. Di questi sopravvivono le tracce in numerose carte,
che sempre D'Intino, con la collaborazione di Davide Pettinicchio e
Lucia Abate, ha di recente raccolto
in volume sotto il titolo Disegni letterari (Quodlibet, 2021). Anche la
pubblicazione di questo bellissimo
volume, ricco di apparati, contribuisce a rinnovare in modo decisivo
l'immagine del poeta, e a confermare la forza di un metodo che giustamente sta già facendo scuola.