Recensioni / Gianni Celati: un cineasta delle riserve – Intervista a Gabriele Gimmelli

Uno dei modi con cui Gianni Celati (scomparso il 3 gennaio di questo anno) ha tentato fin dagli anni settanta di rompere e oltrepassare la griglia tipografica della pagina è sicuramente il cinema. Gabriele Gimmelli, autore di Un cineasta delle riserve. Gianni Celati e il cinema (Quodlibet), è riuscito, con cura filologica, con documenti inediti e testimonianze dirette, a ricostruire le tappe che hanno portato lo scrittore nato a Sondrio, ma d’adozione ferrarese, alla settima arte; il cinema muto, le slapstick comedies di Buster Keaton, Laurel & Hardy e Groucho Marx, poi Wenders, Fellini e Antonioni, i film del ’77 girati in super8 insieme ad alcuni studenti del DAMS, l’apprendistato con Alberto Sironi e tant’altro. Infine l’approdo dietro la macchina da presa: Strada provinciale delle anime nel 1991, Il mondo di Luigi Ghirri nel 1999, Case sparse. Visioni di case che crollano nel 2003 e Diol Kadd. Vita, diari e riprese in un villaggio del Senegal nel 2010. Abbiamo conversato con Gabriele Gimmelli su questa esperienza che si pone un po’ prima e un po’ dopo il cinema, in una zona liminare che aveva bisogno (e richiede ancora) di essere studiata.

La prima domanda riguarda la periodizzazione dell’attività letteraria e cinematografica di Celati. Da Comiche fino a Diol Kadd ci sono elementi di continuità (penso alle interpolazioni ed erranze beckettiane, al metodo di scrittura per aggregazione di materiali sparsi, forse la stessa comicità) e discontinuità (il tema dello sguardo, probabilmente). In qualche modo si potrebbe periodizzare, senza svolte o cesure, con una prospettiva ribaltata, proprio a partire dal cinema, il lavoro artistico di Celati?
Penso di sì, anche se bisogna dire che la distinzione fra un “primo” e un “secondo” Celati è stata ampiamente discussa e ridimensionata negli ultimi anni: fra gli altri, penso agli studi di Andrea Cortellessa e di Nunzia Palmieri, che insieme a Marco Belpoliti ha curato nel 2016 il “Meridiano” dedicato a Celati. Non penso, insomma, che ci fosse bisogno di ricorrere al cinema per misurare la coerenza interna dell’opera celatiana. Di recente, nel corso di una commemorazione che si è tenuta a Bologna, alla Biblioteca Sala Borsa, Carlo Ginzburg ha letto pubblicamente una lettera che Italo Calvino gli aveva inviato nel 1972, quando Celati aveva appena pubblicato il suo primo romanzo, Comiche: “Mi sembra chiaro”, scriveva Calvino, “che quello di Gianni è un corpo di pensiero organico, con un’autorità che risiede nel suo rigore”. E Celati aveva solo 35 anni! Poi, certo, le svolte non sono mancate. Più che di un cambiamento di sguardo, però, nel suo caso parlerei di un cambiamento di postura. Lui stesso ha parlato di “inversione dell’atteggiamento corporeo”: di un passaggio cioè dalla “vicinanza assoluta” della bagarre, che caratterizzava i primi romanzi, dichiaratamente ispirati alla comicità fisica delle slapstick comedies, alle movenze più astratte e mediate che hanno segnato molti dei suoi libri successivi, a cominciare da Narratori delle pianure. Da questo punto di vista, il cinema è senz’altro un’ottima cartina di tornasole, perché accompagna e talvolta prepara questi mutamenti. Per esempio, sono abbastanza sicuro che l’esperienza come sceneggiatore nei primi anni Ottanta a fianco di Alberto Sironi, per quanto priva di esiti pratici, sia stata per Celati un importante esercizio di chiarezza, di economia espressiva e di capacità descrittiva: tutte qualità poi messe a frutto nei libri. Al tempo stesso – e questo complica ulteriormente il quadro – il cinema non solo non inaugura per Celati una possibile carriera come sceneggiatore, ma nemmeno costituisce il compimento di una carriera (come lo è in un certo senso per Pasolini), né una parentesi (come per Soldati), né un episodio isolato (come per Arbasino o Malerba, o Benni). Dobbiamo considerarlo una vera e propria “dimensione parallela” alla sua attività letteraria. Anche per questo nel sottotitolo del libro ho scelto la formula “Gianni Celati e il cinema”, rispetto a una soluzione più diffusa come “il cinema di Gianni Celati”. Intendevo sottolineare che il cinema è solo una parte del suo universo poetico, ed è strettamente legato all’esperienza di certi luoghi, all’incontro con certe persone: insomma, alla vita.

Herzog è un autore a cui Celati ha dedicato molte meno pagine (ma ricordo in Conversazioni del vento volatore parole memorabili sull’incipit di Aguirre, furore di Dio) rispetto agli amati Antonioni, Fellini e, soprattutto, Wenders. Tuttavia mi sembra che i momenti migliori del cinema celatiano siano quelli più “herzoghiani” (ma pure quelli legati al cinema di Joris Ivens): mi riferisco per esempio alle incursioni teatrali e metanarrative di John Berger o alla recita di Bianca Maria D’Amato in Case sparse. Ecco, quelle sequenze potrebbero essere assimilabili a certi momenti finali di un film come Fata Morgana, quando il confine tra realtà e finzione viene intenzionalmente superato e in un certo modo si manifesta, per vie paradossali, il carattere «assertivo» e politico del film. Quanto è profondo il rapporto Herzog-Celati?
Beh, anche nel cortometraggio Provvedimenti contro i fanatici Herzog realizza delle interviste frontali con dei personaggi bizzarri, come fa Celati in Strada provinciale delle anime e in Case sparse… Secondo me, poi, c’è qualcosa di Herzog anche in Diol Kadd, sia per come viene restituita l’immagine di un’Africa postmoderna, lontana dallo stereotipo arcaizzante, sia per la dimensione “liminare”, con la finzione teatrale che deborda nella vita quotidiana e viceversa. Non so se si possa parlare di un rapporto profondo fra i due (in Celati, giusto per dirne una, non c’è traccia del titanismo di Herzog, del suo senso di sfida al limite delle possibilità umane), ma certo si possono trovare delle corrispondenze. Da parte di Celati, curiosamente, l’interesse è letterario prima ancora che cinematografico: per esempio legge Sentieri nel ghiaccio nell’edizione francese, prima ancora che venga tradotto in italiano, e lo menziona spesso nelle interviste e nei rari interventi dei primi anni Ottanta. Tra l’altro, Celati è stato un camminatore indefesso come Herzog: l’aforisma “Il turismo è peccato, viaggiare a piedi virtù”, all’interno della Dichiarazione del Minnesota, potrebbe benissimo averlo scritto Celati. Hai citato Fata Morgana: guarda caso, è anche il titolo di uno degli ultimi libri di Celati, una sorta di conte philosophique a sfondo pseudo-etnografico incentrato su una popolazione immaginaria, i Gamuna. I modelli sono Swift e Michaux, certo, ma anche Herzog: anche Celati, come lui, utilizza la tecnica dello straniamento per illuminare di una luce insolita la realtà. Nell’intervista che hai ricordato, poi, Celati parla di “capacità visionaria” a proposito della sequenza della nave sulla montagna in Fitzcarraldo, dove la fiction si trasforma nel “documentario d’una messa in scena quasi impossibile”: praticamente la stessa cosa che dice Herzog quando definisce quel film “il mio miglior documentario”. E ancora: entrambi condividono il presupposto che le storie, i racconti, in qualche modo vengono prima di noi. Recentemente ho letto un’intervista in cui Herzog dice: “Esiste una visione collettiva, ed è come se vi fossero le stesse immagini, visioni, in ognuno di noi”. E Celati: “Si tratta di riuscire a servirsi delle immagini filmate… come se venissero da un fondo di visioni anonimo e collettivo in cui ci si innesta”. Una consonanza sorprendente, no?

Carlo Gajani e Luigi Ghirri, Il chiodo in testa e Viaggio in Italia, iconotesti e fotografia. E poi il cinema, quasi come approdo naturale. Puoi raccontarci come comunicano questi universi in Celati?
Sono tutt’e tre “strategie di fuga”, con cui Celati ha cercato, di volta in volta, di “evadere” dalla gabbia della pagina scritta. Tutta la sua carriera è fatta di queste fughe improvvise, di scarti laterali, di corse in avanti. C’è senz’altro una componente nevrotica in questo, il sintomo di un rapporto non pacificato con la “cosa” letteraria; ma è stato anche il modo con cui Celati cercava di non farsi incastrare in una definizione univoca. Per questo è stato anche “un prezioso sismografo”, come l’ha definito una volta Marco Belpoliti: qualcuno che ha anticipato tendenze, ad esempio il nuovo rapporto fra parole e immagini. In particolare, nel caso della collaborazione con Gajani, accanto al cinema entrano in gioco altri fattori d’interesse. Fumetti e libri illustrati, per esempio, che qualche anno prima (1968-72) erano già stati al centro delle discussioni con Calvino, Ginzburg e Guido Neri per una rivista che non avrebbe mai visto la luce, “Alì Babà”. Celati legge i Peanuts
di Schulz, ha scritto testi per Tullio Pericoli, ha cercato di convincere Einaudi a mettere in piedi una collana di volumi illustrati sul cinema comico americano, per un certo periodo ha addirittura cullato l’idea di pubblicare un Guizzardi
illustrato. Il chiodo in testa, che esce nel 1974, nasce sulle ceneri di tutti questi progetti non andati in porto. Dopo questo primo tentativo, la formula immagine + testo (anche sotto forma di didascalia a piè pagina, stile “Corriere dei Piccoli”) viene riproposta tre anni dopo ne La bottega dei mimi, a cui prende parte anche Lino Gabellone. Stavolta il modello esplicito sono le entrées clownesche e gli sketch comici di Laurel & Hardy e dei fratelli Marx, Harpo in primis: emerge una vocazione teatrale che Celati ha coltivato fino alla fine, dentro e fuori dai libri. Prima ricordavamo gli intermezzi di Case sparse, ma pensiamo anche alla cornice di Diol Kadd, che ruota tutto intorno a uno spettacolo da fare; oppure all’esperienza teatrale vera e propria, al fianco di Giuliano Scabia; per non parlare dell’esercizio di scrittura drammaturgica con la Recita dell’attore Vecchiatto. Diverse sono invece le circostanze in cui prende forma il sodalizio con Ghirri: in quel caso (siamo intorno al 1981), Celati si trova in una sorta di impasse, è convinto (e lo dice) di non aver più niente di cui scrivere. Il lavoro con i fotografi (oltre a Ghirri, ci sono fra gli altri Mimmo Jodice, Gabriele Basilico, Vittore Fossati, Guido Guidi) gli fa scoprire invece una nuova dimensione della scrittura, “un modo di lavorare più onesto, più pulito, più artigianale”, diceva. In seguito, dai testi scritti per Viaggio in Italia e Esplorazioni sulla via Emilia, sono nati i racconti poi confluiti nelle Quattro novelle sulle apparenze e in Verso la foce. Tra la collaborazione con Ghirri e il debutto nella regia con Strada provinciale delle anime, però, il passaggio non è diretto. Né si può dire che Celati prenda Ghirri a modello, perlomeno all’inizio: “Da Ghirri ho imparato molto”, spiegava in un’intervista dell’epoca, “Ma quando mi sono messo a lavorare con la macchina da presa, mi sono accorto di avere tendenze diverse dalle sue”. Soltanto dopo la sua scomparsa, quasi a voler rendere omaggio al suo magistero, Celati mette i suoi primi tre film sotto l’egida ghirriana. Penso sia importante sottolineare anche questo aspetto, perché durante le ricerche di questi anni molto spesso mi è capitato di assistere a reazioni di sconcerto o addirittura di rifiuto di fronte ai film di Celati. E l’obiezione più frequente era proprio quella di non assomigliare alle immagini di Ghirri!

La destituzione dell’autorialità, del narratore, nei suoi libri, e del regista, nei suoi film, potrebbe essere uno dei tratti comuni più forti tra la letteratura e il cinema di Celati. L’enunciazione si inserisce sempre all’interno di una cornice, sempre deve varcare una soglia. In seguito il suo cinema sarà essenzialmente un cinema “di collettività”. Intervistato dalla Rai, in Bologna 1977: comunicazione e movimento, come racconti nel libro, rispondeva al giornalista pressoché così: chi rappresenta qualcuno è un figlio di puttana. Un po’ provocatoriamente, si potrebbe dire che il germe del suo cinema, di Strada provinciale, Case sparse e Diol Kadd, stia un po’ in questa affermazione?
Possiamo dirlo senz’altro. Del resto, l’idea del “fare” collettivo è la cosa che, per sua stessa ammissione, l’ha spinto verso il cinema: “Scrivere è un’attività solitaria. Io credo d’essermi convertito al film documentario perché è un lavoro che fai con gli altri”. E questo è vero tanto per gli spezzoni girati in super8 con i suoi studenti del DAMS prima e durante il Settantasette quanto per i film girati a partire dal 1991 con gli amici del gruppo Pierrot e la Rosa. Alla base, comunque, c’è sempre l’idea che dicevo prima, cioè che le storie ci precedono, sono nell’aria, e in qualche modo ci sopravvivono. È la “poetica della riserva”: “Il visibile è sempre il già visto, il dicibile è sempre il già detto”. Lo ha ribadito più volte. Ho sottomano quest’altra conversazione con la sua traduttrice tedesca, Marianne Schneider: “L’idea che esistano ‘opere di autori’ – invece d’un flusso collettivo di parole – non è un dato di fatto, è una vecchia pretesa umanistica… Non esiste l’opera ‘originale’. C’è sempre un pullulare di motivi che vengono da tutte le parti”. Per questo per lui mettere il proprio nome in copertina equivaleva a scriversi la lapide mortuaria. Derideva la presunzione degli scrittori, diceva che erano sempre “già morti” e servivano soltanto a riempire i cimiteri letterari, “in modo da dare lavoro ai professori”. Un po’ come noi, che scriviamo libri e ci facciamo sopra le interviste…

Le immagini di Celati sono composte in modo da creare un limite nell’osservazione, tanto che quasi sempre, nel tempo dell’inquadratura, qualcosa devia lo sguardo. C’è un’espressione molto bella che Celati usa, in un’intervista con Marco Sironi, per definire la sua scrittura: «pensare-immaginare». Quanto è applicabile anche al suo cinema?
Su questo punto credo sia importante distinguere fra teoria e prassi, diciamo così. Il Fondo celatiano depositato presso la Biblioteca Panizzi ospita un’enorme quantità di appunti, scritti preparatori, scalette, canovacci e altro materiale relativo ai film. Sulla carta, le idee di Celati sono spesso molto chiare: scrive per esempio che “non bisogna mai riprendere direttamente, sempre con qualcosa davanti”, parla addirittura di “ripresa quasi senza soggetto”; in particolare, per le interviste scrive che “la ripresa deve avvenire come se l’operatore riprendesse qualcosa di diverso, e l’intervistato in un angolo”. Poi, a dispetto di una buona cultura cinematografica – oltre ai comici del muto e ai vari Herzog, Ivens e Vertov, nei suoi appunti si trovano riferimenti a Edgar Reitz, a Wiseman, a Chen Kaige – i riferimenti visivi di Celati sono piuttosto Pieter Bruegel il Vecchio, Sassetta, i pittori prerinascimentali, perché nei loro dipinti “capisci che lo spazio è qualcosa in cui ci si perde”. La difficoltà di Celati, semmai, sta tutta nel trasporre queste idee dalla carta allo schermo. Detto altrimenti – sempre che abbia capito bene la domanda: se nella scrittura pensare e immaginare sono un tutt’uno, nel cinema il pensiero, per diventare immagine, deve passare attraverso la macchina da presa. Quando ho parlato con Lamberto Borsetti, che insieme a Paolo Muran è stato uno dei suoi collaboratori più fidati sul set, mi ha detto che, anche quando stava girando un film, Celati lavorava “come uno scrittore che riordina gli appunti”. Con queste difficoltà ha sempre fatto i conti, non si è mai tirato indietro. Sapeva di essere un dilettante, anzi, lo rivendicava con orgoglio: il suo è un cinema programmaticamente “amatoriale”. In più, a complicare le cose, c’è anche quella che tu hai chiamato giustamente “destituzione dell’autorialità”, che Celati intende nel modo più radicale, arrivando a non dare neanche l’azione e lo stop durante una ripresa! Questo spiega anche perché alcuni film (Case sparse e Diol Kadd, per esempio) abbiano impiegato molti anni per essere portati a termine…Ad ogni modo, mi sembra che, film dopo film, Celati sia riuscito a fare di necessità virtù, trasformando i propri limiti in elementi espressivi. Da questo punto di vista, tra l’estetica ancora un po’ approssimativa di Strada provinciale delle anime e Il mondo di Luigi Ghirri e quella invece anche troppo tradizionale di Diol Kadd, continuo a pensare che un film come Case sparse, con le sue parentesi teatrali, l’uso straniante delle cornici narrative e del found footage, i suoi richiami al cinema delle origini, possieda una sua stralunata originalità, ha davvero pochi equivalenti nel cinema italiano recente.

Il tuo libro ha il pregio di offrire una panoramica dettagliatissima su questa esperienza marginale (e forse poco vista) nel cinema italiano del secondo Novecento. Come si può leggere, oggi, il cinema di Celati, in relazione ad un panorama cinematografico in cui le opere che giocano con fiction e non-fiction sono sempre più numerose?
Potrei rispondere che come filmmaker è stato per certi versi un anticipatore, così come lo è stato in qualità di scrittore. La sua produzione cinematografica termina nel 2010, ovvero sulla soglia del decennio che ha visto il “cinema del reale” uscire dalla nicchia per diventare un fenomeno planetario. Però non mi sembra che i suoi film abbiano avuto una qualche influenza su registi come Minervini o Marcello, giusto per fare i primi nomi che mi vengono in mente. Mi sembra anche che ci sia una certa incompatibilità di fondo fra il modus operandi di Celati e quello di alcuni “cineasti del reale”. Ricordi la polemica di qualche anno fa intorno a Fuocoammare di Gianfranco Rosi, sull’uso che lì si faceva della color correction? Ecco, pensa che Celati al montaggio sceglieva sempre la ripresa più “sporca”, enfatizzava gli errori, gli inciampi della lavorazione. Insomma, c’è indubbiamente una distanza. Negli ultimi anni, ciò che sembrava interessarlo di più erano le serie televisive – I Soprano, ma anche Mad Men, Fargo, la britannica Silk – probabilmente per la ritualità del racconto a puntate, la costruzione non lineare della narrazione. In fondo, è quello che ha fatto fra il 2006 e il 2013 con i Costumi degli italiani, che non a caso qualcuno ha paragonato a dei “telefilm a puntate”. Questo per quanto riguarda il cinema italiano contemporaneo. Ma anche guardando indietro, il discorso non cambia granché: non riesco a vedere connessioni fra Celati e i filmmaker indipendenti suoi coetanei, come Tonino De Bernardi e Alberto Grifi, o della generazione immediatamente successiva, come Massimo Bacigalupo. Anche nel biennio 1976-77, quando Celati si butta per le strade di Bologna a filmare l’epopea del Movimento, si pone comunque “a latere” rispetto al cinema militante dell’epoca: i suoi modelli, ancora una volta, erano semmai le slapstick comedies, al limite il cine-occhio di Vertov. Insomma, almeno come cineasta, Celati rimane un grande isolato. Anche per questo, credo, i suoi film hanno avuto uno strano destino critico: elogiati e ammirati ma di fatto invisibili (il cofanetto con i primi tre film in dvd, uscito per Fandango nel 2011, è ormai introvabile), premiati ma in fin dei conti poco capiti. Anzi, come ricordavo prima, qualche volta hanno suscitato sconcerto e irritazione: anche davanti a Diol Kadd, forse il suo film più “ecumenico”, si sono levate voci di dissenso, con accuse di orientalismo ed esotismo – il che, riferito a uno degli autori italiani che più hanno frequentato gli studi etnografici e antropologici appare perlomeno ironico… Forse oggi, con la sua definitiva uscita di scena, una lettura del corpus cinematografico di Celati sarà più facile. Magari all’interno del panorama più ampio della sua opera letteraria, di cui costituisce, come dicevo all’inizio, una sorta di dimensione parallela.