«Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione». È il fulmineo esordio di uno
dei più celebri testi pubblicato esattamente cento anni orsono. Si tratta della Teologia politica di Carl Schmitt, il più geniale e sulfureo giurista tedesco del secolo scorso. Interprete acuto della Repubblica
di Weimar, aderì al nazionalsocialismo, diventandone uno dei massimi
teorici. Poi, alla fine della guerra, privato dell'insegnamento universitario,
si dedicò alla stesura dei suoi libri. Eppure, nonostante la pesante sconfitta, ha continuato a esercitare una vasta influenza sul pensiero filosofico,
politico e giuridico non soltanto conservatore, ma anche, e forse soprattutto, di sinistra. Benché altamente controversa, la sua opera è stata al centro
di un dibattito sempre più serrato,
perfino in ambiti ben lontani dal suo.
Basti leggere la recente antologia, edita da Quodlibet, Critica della teologia
politica. Voci ebraiche su Cari Schmitt,
a cura di G. Fazio e F. Lijoi, che comprende testi di Walter Benjamin, Leo
Strauss, Hans Kelsen, Karl Leiwith e Jacob Taubes. Per quanto divisi sul giudizio, tutti individuano nella Teologia
politica di Schmitt un testo imprescindibile, su cui occorre ogni volta tornare con sguardo diverso.
Perché? Cosa fa di quelle pagine
uno dei più potenti incunaboli dell'intera filosofia politica novecentesca? E
cosa ci dicono ancora oggi sull'origine e il destino della politica? Intanto
ricordiamone la tesi centrale. Per teologia politica non bisogna intendere,
come hanno fatto in molti, l'uso politico della religione né il fondamento religioso della politica, ma l'analogia
strutturale tra concetti politici e dogmi teologici. Come l'autore stesso si
esprime, «tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato
sono concetti teologici secolarizzati».
Al cuore di questa corrispondenza
non c'è tanto la relazione tra sovrano
assoluto e Dio onnipotente, quanto
quella tra stato d'eccezione in politica
e miracolo nella teologia cristiana. La
sovranità è definita appunto dalla decisione nello e sullo stato di eccezione. La legittimità non si riduce alla legalità, ma la eccede da tutti i lati, minacciando di destabilizzarla. Diversamente da coloro - come Kelsen - che
identificano la sovranità statale con
l'ordinamento normativo, per Schmitt a rivelare chi effettivamente comanda è il potere di indire lo stato
d'eccezione. Da qui il carattere altamente drammatico della sua concezione: il profilo più acuto del politico
si manifesta non nei periodi di normalità, ma in quelli di crisi eccezionali.
Ciò spiega l'estrema attualità della
teologia politica di Schmitt. Per quanto se ne possa contestare l'ideologia,
non si può negare la sua implicazione
con una condizione, come la nostra,
che da almeno vent'anni ci trascina
da una crisi all'altra. Ma cosa c'entra -
si potrebbe chiedere - la teologia?
Questa domanda sarebbe apparsa ovvia nel cinquantennio che va dalla fine della Seconda guerra mondiale
all'ultimo decennio del Novecento,
quando la distinzione tra ambito privato della religione e ambito pubblico
della politica sembrava andare da sé.
Poi, da un lato la ripresa del terrorismo fondamentalista, dall'altro il contrasto globale fra comunità con fede
diversa hanno cambiato le carte in tavola. La religione ha ricominciato a
esercitare un ruolo pubblico. E a produrre conflitti identitari fra valori contrapposti. Il confine, un tempo assai
marcato, tra religione e politica ha cominciato a sbiadirsi. Non solo in America - dove il richiamo all'autorità divina è presente nel preambolo alla Costituzione di diversi Stati - ma anche
altrove la fede religiosa ha ripreso a
circolare anche nelle società secolarizzate, rispondendo a una diffusa domanda di senso. E le pretese di ingerenza della Chiesa cattolica nelle legislazioni nazionali su inizio e fine vita
non riproducono anche da noi tensioni con lo Stato laico che parevano superate?
Ma al lessico teologico-politico rimandano altre due dinamiche intrecciate tra loro. Da un lato la crisi economica, dall'altro quella pandemica.
Quanto alla prima non è sfuggito agli
analisti più fini l'analogia tra il debito,
apparentemente inestinguibile, degli
Stati e quello religioso, parimenti eterno, dei credenti nei confronti di Dio.
Non per nulla in tedesco debito e colpa si chiamano entrambi Schuld. E la
fiducia nei confronti dei mercati non
richiama una sorta di fede? Non per
nulla, in un saggio pubblicato appena
un anno prima di quello di Schmitt,
nel 1921, Benjamin aveva parlato del
capitalismo come una religione senza
culto. In questo modo alla teologia politica si affianca, senza contraddirla,
una teologia economica ancora più
capillare - come una forza impersonale che dalle grandi centrali finanziarie governa gli uomini non diversamente dall'economia provvidenziale
di cui parlavano i Padri della Chiesa.
Tutt'altro che porre fine a queste inquietanti analogie, la crisi pandemica
sembra averle rafforzate. Non solo
per la quotidiana fiducia, anche in
questo caso non lontana da una fede,
che ci viene richiesta nei confronti
della scienza, con virologi ed epidemiologi al posto dei sacerdoti. Ma anche per l'eccezionalità delle procedure di contenimento del virus, a volte
spinte al limite della prassi democratica. Certo, mai come oggi, la centralità
della scienza ha una motivazione reale, e perfino drammatica, nell'andamento della pandemia. Così come
quelle procedure eccezionali non sono imposte da una volontà sovrana interessata a controllarci, ma da un misto di necessità e contingenza che
sembra non lasciare altra via, se non
si vuole sottrarre alla politica il suo
compito primario, che è quello della
difesa della vita.
Eppure qualcosa delle parole di
Schmitt fischia nelle nostre orecchie
come un avvertimento sinistro. Perché lo stato di emergenza in cui da
troppo tempo viviamo non si trasformi in stato di eccezione permanente,
occorre che resti limitato nei modi e
nei tempi previsti dalla Costituzione.
Altrimenti i demoni della teologia politica potrebbero tornare a calcare la
scena contemporanea.