Masneri inizia il suo libro (anche fotografico) con L'Anonimo lombardo che gli cade in
testa da un'alta libreria. Era un
ventenne "confuso e infelice" in
fuga dalla Lombardia, quella industriosa, tirchia e "borromaica"
da cui era già scappato il Gadda
venerato dal giovane Arbasino,
autonominatosi suo "nipotino"
e giustiziere dei critici dell'ingegnere, sospettosissimi perché
troppo bizzarro e macaronico e
"cincischiato", mentre loro pigolavano "in caffè taciturni per timore del Regime e di richiami alle armi" di versi e prose distillate
circa magmi, grumi,
greti, greppi, rivi, divi,
anse e ansie...
Stile Alberto,
Bildungsroman 3.0, è
cronaca rapinosa e vivace di un apprendistato girovago tra ambizioni sbagliate e
l'odiato, "farraginosissimo" diritto del mare,
di cui Arbasino, fatalità, era stato uno specialista. Come il suo modello -
"nato a Voghera, rinato a Roma"
- Masneri si è resettato nella capitale dopo una parentesi nella
"delirante" università di Gorizia,
nei casinò da "junkspace" di Nova
Gorica, e anni spettinati su e giù
per l'Adriatico, in pura cifra Fratelli d'Italia, "a gran velocità verso le discoteche tondelliane di
Riccione, su Range Rover di colleghe con papà dentisti a Bergamo Alta". D'altronde a Bèrghem,
dovendo sciropparsi il capitalismo in purezza, non si poteva che
provare il desiderio dei margini di
cattolica rilassatezza nelle città a
sud del Po. È un itinerario familiare a diversi scrittori settentrionali, che a Roma hanno scoperto,
per dirla con Gadda, "le ragioni
oscure e vivide della vita", cioè la
possibilità - insinuava il milanese Cesare Cases - di esistere al di
fuori dell'economia di mercato,
là dove si ottiene un po' di riconoscimento anche se squattrinati
e perfino "il demone del denaro"
assume aspetti "pittoreschi, lubrichi, stravaganti".
E nella capitale Masneri ha presto la possibilità di sperimentarlo: lontani i tempi della stampa danarosa che permetteva note
spese a gogo, i laureati negli anni
novanta sono stati forse gli ultimi a nutrire speranze concrete sul
giornalismo, andando incontro
allo scoramento più totale. Dovranno vedersela con agenti letterari farlocchi, "progetti urgentissimi" che non sono per niente
urgenti, loschi faccendieri televisivi, strampalati magliari di "eventi" dove non si vede un euro. Però il divo Arbasino aveva previsto
quasi tutto, scrive l'autore, "quasi", perché stava arrivando un ultenore declassamento, per fermare il quale aveva promosso la
necessità di un tariffario, "come
gli idraulici e i meccanici", e soprattutto adoperato il "valla" come "rito apotropaico" per eludere
le troppe richieste di prestazioni
da volontariato ONU. Basti pensare al suo raccapriccio nel vedere
Barthes in "fetidi bistrò asiatici"
circondato da "petulanti bruttissimi" che lo assalivano spiegandogli i libri e i film o Moravia in trattoria "non più con dei Guttuso e
Piovene e Bertolucci e Siciliano e
Tornabuoni e Garboli, ma tra ceffi che urlavano `Albè! nun hai capitoooo’ dandogli del tu e mangiando a sue spese".
La rinascita a Roma dell'autore
avviene non solo per la sospirata
laurea alla Luiss ma anche per il
graduale appressamento al maestro, imprendibile a tre
quarti della società letteraria, munito com'era
di una snobissima segreteria telefonica ("Il
dottore non è in stanza") e di una velocità
strabiliante nel rendersi irreperibile per l'Europa e gli States fin dai
tempi del "Mondo" di
Pannunzio. Acchiappato finalmente a una
presentazione, Masneri, come il
sarto manzoniano, si riduce a farfugliare a trent'anni suonati un
desolante "ho letto tutti i suoi libri, ricevendo un glaciale "continui così, cavo". Il rotacismo anteriore e la leggerissima balbuzie
completavano a perfezione l'outfit
dello scrittore, spietato sul casual
degli zombi e "doni punk rock e
junk", affezionato ai Caraceni e
Padovini e alle cravatte a piccoli
disegni, con minime concessioni a bermuda eleganti (e risatine a Formentor per i costumi da
bagno "antichissimi" di Contini
e Vittorini che scivolavano sulle
scogliere).
Entrato in famiglia (fanno fede i selfie insieme ad Arbasino),
Masneri può rilassarsi e lì, col venerato maestro, approfittare di
quel "juke-box ben temperato"
per curiosare nel retroscena dei
personaggi di Fratelli d'Italia,
per esplorare il demimonde romano, addirittura essere ricevuto
nell'appartamento di via Gianturco 4, lo scrittore in ciabatte, incredibile viso, uscendone mezzo
sbronzo di Asti Cinzano da cesta
natalizia. Il romanzo di formazione di Masneri ha un happy end,
poiché il narratore negli ultimi
anni ha lavorato nei quotidiani e
pubblicato un buon Adelphi sulla
Silicon Valley, stile Arbasino soprattutto nell'ubbidienza ai precetti della firma di innumerevoli
reportage "on the road", "on the
spot", a caldo, fino alla terza età,
quando ancora - tenendo la barra
su Leopardi e Gramsci - discorreva delle costanti antropologiche
à la Lévi-Strauss degli italiani, di
corsi e ricorsi vichiani a proposito degli sproloqui dei sedicenti "impietosi", "irriverenti" modi", le mezzecalze "inquiete" a stipendio RAI, un lusso - sbottava il solito Gadda - che la sua generazione non si era mai potuta permettere.
"Chi si è mai avvilito al mondo
leggendo Arbasino?", si chiedeva
Mario Bortolotto, e la domanda,
s'intende, era retorica. Tommaso Labranca, cauto ammiratore,
aveva vidimato la sua grandezza anche quando faceva lo snob e
sarebbe venuta la voglia "di prenderlo per il bavero della tremenda
camicia a motivi paisley con cui si
fece fotografare negli anni settanta" (è in copertina nel vol. 1 dei
Romanzi e racconti dei "Meridiani", 2009, curati da Raffaele
Manica). Leggendolo in un laundromat, "isolato e ignorato in un
angolo del mondo" dietro piazzale Corvetto a Milano, si chiedeva
come facesse, lui, senza uno sbadiglio, una giornata di pioggia,
un sabato qualunque, e non è stato l'unico. Sono in molti ad aver
contratto debiti complicati e tutto sommato onerosi con il romanziere, l'antropologo, il globetrotter, il saggista, il melomane: come
illudersi di accorciare le distanze
da un simile performer?