Il valore di questo libro non è
nella novità. I testi che raccoglie sono tutti editi e diversamente raccolti in edizioni francesi e
inglesi. Il valore è offrire alla lettura, l'uno dopo l'altro, ordinati dall'autore, 19 scritti che aiutano (soprattutto gli
studenti e i giovani
studiosi) a capire quello straordinario momento che sono stati
gli ultimi due decenni
del Novecento, a partire dalle allucinate e
lucidissime parole di
Rem Koolhaas dettate da una frenesia speculativa e visionaria
che in quegli anni si è
espressa forse al suo meglio (anche se lui stesso osserva come le
sue parole si siano velocemente
trasformate in cliché, senza peraltro troppo rammaricarsene). Da
una parte dunque l'ennesima operazione di riproposizione di scritti che non consuma mai fino in
fondo i propri materiali e ne permette una utilizzazione continua,
dall'altra un invito a ripensare, interrogarsi, fare i conti retrospettivamente con gli ultimi decenni del secolo.
Il ripensamento può prendere
avvio da una domanda che aleggia in più parti in questo libro.
Quanta spiaggia è stata portata
in luce nelle città dopo che nel
maggio 1969 è comparsa la celebre scritta Sous le pavé la plage?
Quanto selciato è stato rimosso?
Si è dato quel nuovo inizio che
la scritta sui muri parigini auspicava? Sono riconoscibili quelle
1001 concezioni di città che Koolhaas auspicava? La risposta non
può essere che negativa, anche se
gli ultimi decenni del Novecento hanno intrecciato, come forse
mai prima, idee urbanistiche molto differenti. È vero che sempre si
sono scontrati i cultori della conservazione con coloro che la città
la volevano rifare per intero. Da
una parte il ritorno al contesto
fisico che moltiplica gli sguardi
sulla città e ritorna sull'approccio
morfologico, dall'altra le nuove
traiettorie del progetto che cercano di inseguire l'"esplosione"
della città. Ma quel lanciare l'idea
di un nuovo inizio, era per molti
versi Medita. Ed è su quel nuovo
inizio che si contrappongono le
posizioni con toni aspri, anche di
derisione. Poiché, per usare le parole di Koolhaas: "dove c'è niente
tutto è possibile, dove c'è Architettura niente (altro) è possibile".
Un piglio quasi futurista.
Campo di battaglia non è più,
come voleva Tocqueville centocinquant'anni prima, la proprietà privata. Ma il vuoto, il niente,
l'assenza. Vuoto come spegnimento progressivo di usi al mutare dei rapporti tra capitale e lavoro, vuoto come occasione per
ridisegnare rispettosamente parti di città, le maglie, le geometrie,
l'alternarsi di architetture, come
in una società ancora patriarcale.
Oppure vuoto come "spazio tra le
cose", come amava dire Gregotti,
spazio capace di restituirle al loro
essere città nella tradizione italiana dell'architettura e urbanistica
degli anni ottanta (qui è la trama
di senso ancora moderna ad affiorare). E ancora, vuoto come un
niente che rimane tale,
a mostrare il comporsi
continuo di stabilità e
instabilità, il loro non
escludersi. Il vuoto che
segna la non città. La
non più città. In tutti
i modi si tratta sempre
di scrivere un manifesto. Se quello su New
York (Delirius New
York, Electa, 2002) era
dettato da una ricerca
intorno all'influenza delle masse e della cultura metropolitana
sull'architettura e l'urbanistica, il
Manifesto scritto con Ungers su
Berlino (Berlin: A Green Archipelago, Lars Miiller 2013 ed. orig.
1977) è dettato dalla ricerca sulla
"sopravvalutazione del residuo".
Su ciò che resta di una città fatta di spazi vuoti, non risolti. Una
sopravvalutazione del niente. Al
Manifesto di Berlino è dedicato
un intero capitolo e i suoi contenuti ritornano in continuazione
nel testo;come espressione, forse
la più completa, di una strategia
per progettare il declino della città. Una metafora, quella dell'arcipelago, che dopo quarant'anni
non ha finito di affascinare: isole
architettoniche sospese nel nulla;
residui di edifici completati dalla realizzazione di progetti modello: il Palazzo della cultura di
Ivan Leonidov o i grattacieli rettangolari di Ludwig Mies van der
Rohe. Intorno, il tessuto urbano
è lasciato a deteriorarsi un po' alla volta in attesa del sopravvento
della natura. Un paesaggio "arcadico, una griglia di terreni agricoli, foreste, riserve ecologiche
che si insinua nella città, all'interno della quale sarebbero state nascoste le infrastrutture della vita
contemporanea. Non c'è bisogno
di insistere sul fatto che queste
immagini, queste parole stiano
tornando continuamente nei discorsi che cercano di prefigurare
il futuro della città.
Un giorno, scrive Koolhaas,
dovremo riconoscere i molti vantaggi della non (più) città. È arrivato quel giorno? Sono passati quarant'anni, come è andata?
I vuoti che facevano di Berlino
la più straordinaria città d'Europa sono stati riempiti, prima ancora che di architetture, di valori
finanziari e immobiliari. Le città
non sono in declino, come si riteneva sarebbero state. Le periferie
hanno smesso di essere quel luccicante scenario che aveva colpito scrittori, fotografi, architetti
e non si sono rivelate straordinari luoghi di innovazione. Hanno
saputo solo riprodurre sé stesse:
l'incomunicabile, quasi ridicola
clandestinità della vita privata.
Sicuramente oggi manca una figura funambolica come quella di
Koolhaas di quegli anni, essendo
il Koolhaas di questi anni forse
meno impegnato in straordinarie
invenzioni.
Delle quattro parti del libro la
prima è forse la più forte. I testi
sono più noti, più evocativi. Ogni
parte del libro è, come sempre,
senza titolo, distinta da una semplice lettera dell'alfabeto. Questa
prima raccoglie quattro saggi degli anni ottanta e uno della metà
del decennio successivo: già i titoli chiariscono il disegno d'insieme: una nuova ricerca, verso la
città contemporanea; lo splendore terrificante del XX secolo; immaginare il nulla: cos'è successo
all'urbanistica? La seconda parte
più fitta di ricordi personali, ma
sempre in grado di tratteggiare
luoghi e passaggi cruciali di quegli anni. La terza, impegnata sui
profili di alcune metropoli: Atlanta (la "vera città della fine del
XX secolo") e poi New York, Singapore, Tokyo, Euralille, Parigi,
Brasilia. Nell'insieme, molte realtà urbane e metropolitane, viste
e raccontate da un punto di vista
antropologico, mai moralistico.
La quarta, infine, con il contrappunto di ragionamenti più recenti e forse ortodossi, sulla smart city e la campagna: la prima critica
il funzionalismo manageriale di
quanto è etichettato come smart;
la seconda anticipa la grande mostra al Guggenheim. Tutti testi
brevi, come la precisa Introduzione di Manuel Orazi che richiama
il Denkbild di Benjamin: neologismo per indicare un genere che
disintegra i confini convenzionali
tra produzione filosofica, letteraria e giornalistica. Il terreno preferito da Rem Koolhaas