0ra che Gianni Celati (1937-
2022) ha trovato la sua foce
sul mare diafano di Brighton, dove
viveva da trent'anni lontano dall'"Italia invivibile", verrebbe voglia
di rivolgergli ogni tanto il "discorso da fare ai defunti per informarli
di cosa succede" che lui stesso aveva ascoltato nel villaggio di Kiol
Dadd, in Senegal, e che aveva scelto come esergo di uno dei suoi libri più belli, Conversazioni del
vento volatore (Quodlibet, 2011):
"Il mondo sta diventando un altro
mondo / gli uomini stan diventando un'altra specie d'uomini / tra
poco non riusciremo più a riconoscerci / anche le parole cominciano a disfarsi / anche i sassi sono malati e si sgretolano". Cos'altro
possono dire i vivi ai morti se non
che tutto si disfa e si sgretola? Verrebbe voglia, ma sarebbe inutile.
Non solo perché Celati lo ha sempre saputo, ma perché quel discorso lo ha svolto ininterrottamente
nella sua lunga storia di scrittore,
facendoci talvolta venire il sospetto di essere noi i veri defunti, dimentichi e quindi bisognosi di essere informati di ciò che ci accade
ogni giorno.
Nell'Esercizio autobiografico in
2000 battute scritto per il numero di "Riga" che Marco Belpoliti
e Marco Sironi gli hanno dedicato nel 2008, spoglio e concreto come un telegramma, la frase "Passa
il tempo" compare sette volte, come un ritornello, come se il tempo che passa fosse l'avvenimento
più importante della vita. E da lì,
del resto, che nascono tanto la sua
scrittura quanto il suo cinema documentario, arti gemelle delle parvenze che affiorano e scompaiono:
in un sentimento della labilità di
tutto ciò che esiste spogliato però
di qualsiasi cinismo nichilistico o
titanismo tragico, perché di questa entropia universale fanno parte
la disperazione e il desiderio, il disfacimento e la meraviglia, la resa
e lo slancio, il buco dell'anima e "il
vento che viene su da quel buco, e
ci spinge a pascolare di qua e di lì,
con la voglia di stringersi a qualcuno, per poi ricominciare sempre la
stessa storia, stringersi, litigare, pascolare di qua e di là" come annota
nel suo diario l'Enrico biondo della Novella dei due studenti in Cinema naturale (Feltrinelli, 2001).
E naturale, nelle sue molteplici
accezioni, è forse la parola chiave di
tutta l'opera di Celati — che si può
leggere, appunto, anche come una
filosofia naturale —, il trait d'union
che lega la sperimentazione sull'oralità e sul corpo comico condotta negli anni settanta in Comiche
(Einaudi, 1971; Quodlibet, 2012)
e nella trilogia dei Parlamenti buffi (Feltrinelli, 1989) alla riscoperta
della tradizione novellistica italiana dopo l'incontro fondamentale con Luigi Ghirri all'inizio del
decennio successivo: naturale sta
per la naturalità dell'essere umano
in quanto organismo vivente confuso tra altri organismi viventi, la
cui consapevolezza fa piazza pulita della pretesa di considerarsi padroni del pianeta; naturale rimanda alla naturalezza della lingua che
Celati ha ricercato da Narratori
delle pianure (Feltrinelli, 1985) in
poi, una "lingua delle madri" senza pose né astrazioni, perché il suo
scopo non è definire, etichettare
o giudicare, ma esporre la propria
presenza al contatto con un'altra
presenza; naturale è, anche, la sua
risalita alle radici antropologiche
del narrare, inteso come bisogno
di condivisione, rimedio alla solitudine e manutenzione della capacità di immaginare, che trova la
propria materia prediletta nell'ovvietà e nella banalità del quotidiano, nel "nostro essere al mondo
come fenomeno primario, il fenomeno del nostro essere qui, assieme agli altri, in attesa di andar via.
Che è il contrario del nostro egotismo, della scatenata avidità".
Tutto, in Celati, ci interpella dal
versante di queste coordinate essenziali, ci invita delicatamente
a fare i conti con i fondamentali
dello stare al mondo: saper guardare, saper ascoltare, saper uscire
da sé stessi. Sul limitare degli anni ottanta, tra il fallimento delle
utopie rivoluzionarie e "l'avvento
al potere del capitalismo finanziario, (...) l'abolizione di ogni veduta
comunitaria, la guerra individuale
per passare davanti agli altri". Celati ha affidato la sua resistenza alla letteratura, o meglio, all'arte del
racconto. È diventato un narratore-raccoglitore e ha messo in scena personaggi qualsiasi, che vivono vite qualsiasi e sperimentano
fallimenti qualsiasi, e la cui principale qualità è un forsennato bisogno di narrarsi, ossia di trovare
qualcuno che li ascolti. Che siano
studenti dal curriculum traballante, falegnami, inventori, venditori
ambulanti, carcerati, i protagonisti del corpus novellistico celatiano sono prima di tutto narratori
e solo in secondo luogo oggetto di
narrazione, in un circolo virtuoso
per cui l'autore che li ha creati come personaggi è sua volta creato da
loro in quanto voce narrante.
Quello che può sembrare a prima vista un gioco metanarrativo
abusato è, al contrario, un'etica civica, inappariscente e per questo
tanto più profonda, che nell'imperversare della logica dell'utile riafferma l'inevitabilità dello sperpero, disinnesca il protagonismo
euforico con l'esercizio della malinconia e a dispetto dell'egotismo
imperante pratica la letteratura
come conversazione, nella certezza che "le parole fuggono via nella nebbia e nel sonno, sfuggono ai
giorni e agli anni, non si sa dove,
ma è lì che poi ci si incontra". Se la
vita ha un significato (e non è detto
che ce l'abbia) è nella sua impermanenza, se le parole hanno una forza (e non è detto che ce l'abbiano)
è nella loro volatilità, che le fa vagare da una bocca all'altra, da una
generazione all'altra, da una lingua
all'altra, in un movimento sempre
in perdita the è l'unica forma non
ridicola del loro possibile durare.