La conversazione tra Mario Tronti e i curatori del libro di scritti La rivoluzione in esilio, Andrea Cerutti e Giulia Dettori, percorre i moventi e le tappe del pensiero politico di uno dei più lucidi pensatori del ‘900 e di questo tempo. Nella parte finale dell’incontro v’è il riepilogo dell’arco di riflessione dell’autore di Operai e capitale, laddove il filosofo prosegue una teoria che deriva dalla pratica politica. La lettura di questo libro può essere accompagnata dalla recente raccolta di saggi Il demone della politica (1958-2015) con la grande curatela di Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila Mascat, che mostra per la prima volta l’andamento del “lungo” pensiero di Tronti, dalla scoperta di un soggetto di classe in sintonia con il tempo del capitalismo nei “Quaderni Rossi”, all’inizio della stagione operaista nell’elaborazione della rivista “Classe operaia”, alla teoria dell’“autonomia del politico” che estendeva a studenti e nuovi soggetti sociali l’antagonismo ad un capitale che trasformava il fondo della crisi economica in superficie politica del conflitto sociale.
Nel riportare all’ostile realtà contemporanea le ragioni che a partire dalla fine degli scorsi anni Cinquanta hanno voluto rovesciarla, le ragioni del comunismo, ciò che qui Tronti dice è niente di meno che il modo in cui la storia delle lotte al capitalismo si è cadenzata nelle diverse costellazioni di pensiero generate dall’operaismo. Di questo passo hanno indicato la via La politica al tramonto e Dello spirito libero in cui Tronti elabora una teologia politica costituita dall’archivio della filosofia moderna, da Machiavelli a Hobbes a Weber a Schmitt, investiti dalla tempesta messianica che da Nietzsche a Bloch e a Benjamin continua a spazzare via le pretese degli storicismi marxisti. Risulta così più agevole iniziare la lettura di questi scritti dalla voce di colui che tra i filosofi politici è riuscito a trasformare un pensiero necessario nella molteplicità di esperienze possibili. Esperienze militanti che, attraversando sei decenni, divengono oggi leggibili proprio nella distanza dai tempi in cui sono accadute.
Dall’ascolto nasce infatti la memoria viva del tempo delle lotte e con esso qualcosa che non può ridursi a discorso e logica politica; qualcosa che è forse parte della natura umana, la parte maggiore, che si tende a non dire, a esiliare in sé stessi come se fosse una riserva di energia nei momenti di sofferenza. In questo tempo in cui sconfitta della rivoluzione e possibilità delle insorgenze scorrono intrecciate ma non intatte, l’ascolto dell’incessante riflessione di Tronti intorno alle possibilità sepolte o emerse, nascoste o intraviste, archiviate o organizzate, ci permette di registrare sul nastro della storia continua, le rotture e le aperture, il disordine e il respiro di diverse generazioni. Questa parte è lo spirito, che è spirito di vita comune, contemplazione e animazione del mondo, trascendenza nell’immanenza della storia.
Dunque, ciò che più interessa è il movimento dello spirito che inizia dalla sconfitta operaia nel luogo e nel tempo che può essere datato 1980 con la marcia dei “capetti” della FIAT, e giunge fino ad oggi. Non deve però questo motore mobile della contestazione essere assimilato all’hegeliana marcia trionfale dello spirito verso il sapere assoluto, ma, al contrario, alla nascita, nella terra devastata, di un sapere dell’anima che può essere sottratto alla cattura del pervasivo mondo neoliberale. Che questa ginestra sia fiorita nel deserto del “nostro scontento” è l’imprevisto eppure permanente sentimento comunista che anima individui, gruppi, situazioni, testi e ricerche che, almeno dai primi anni Novanta, si sono fatti stranieri alla democrazia e ai suoi diktat liberalmente autoritari.
Letti secondo la parola che ci fa essere nel mondo ma non del mondo, i diversi saggi rivelano una essenziale partizione in cui si specchia la storia recente della filosofia politica: la secolarizzazione dei concetti teologici affermata da Max Weber per illuminare il fondamento della sovranità e, in contrasto, l’essenza dei secoli che ci separano dall’illuminismo, cioè il nichilismo. Di queste due fonti della teoria moderna che inizia da Spinoza, è Nietzsche, ed è la genealogia messianica che da Nietzsche si distende, a trovare conferma nei conflitti e nelle rivolte, nell’autonomia e nella libertà così come nell’idea della comune, confiscata e resa inagibile da positivismo, materialismo, economicismo e marxismi-leninismi. Seguendo questa linea di tendenza sembra dunque più importante provare a chiedere l’autonomia all’archeologia della politica piuttosto che ricorrere a deboli tentativi istituenti che hanno promosso la religione secolare del capitalismo. Contro questo esito critico weberiano, la crisi del fondamento enunciata dall’operaismo scopriva una “gaia scienza”, un sapere del conflitto, il nichilismo operaio, che produceva il genere dell’inchiesta. Non solo. L’operaismo già alla metà degli scorsi anni ’60 faceva affondare il pesante e disastroso bagaglio ideologico idealista e nazional-popolare trasferito di peso nella tradizione socialista e che in Italia avrebbe condotto al riformismo, al compromesso storico e all’eurocomunismo; cioè al farsi Stato del PCI e della classe operaia organizzata nel sindacato. La curva di pensiero di Tronti si piega nella felice consistenza dello spirito in una meditazione sulle possibilità di una forma di vita che, a partire dal monachesimo, realizzi l’inversione tra il tempo del mercante e il tempo dell’anima.
Spiritualità, cristianesimo, esperienza religiosa, disegnano una costellazione di esistenza inscritta nelle pratiche di contrasto al presente, che può innescare un fare comune da un sentire comune. Gli effetti di questa ricerca per le generazioni che dai primi anni Settanta ne perseguono fini ed elaborazione, sono testi come La politica al tramonto e Il nano e il manichino, che hanno aperto una via difficile in cui sperimentare l’esistenza. Dal “rifiuto del lavoro” alla critica al conformismo dell’homo democraticus, all’indagine dei teorici conservatori, alle esperienze originarie dei Padri del deserto e del primo cristianesimo, – è un messianesimo ad accorciare la storia dei conflitti e delle sommosse rispetto al tempo lungo e monumentale della politica mondiale. Il Frammento teologico-politico di Benjamin “fa” storia nel tracciare l’analogia tra la genealogia nietzscheana di quella proposizione e il “frammento sulle macchine” dei Grundrisse. La politica mondiale è nichilismo non marxismo postumo.
Il raggio che emana da questa lontananza del profano della storia dal messia che viene a romperla,
illumina di luce radente l’attualità da un punto topico del tempo; trascorsi 44 anni, possiamo dire che è un punto di osservazione privilegiato da cui guardare al presente. Quel punto della storia è il ’77 quando un movimento insorse rivendicando l’assenza di futuro e rompendo con il sistema dei partiti e le rappresentanze sindacali. Il ’77 tra la terra del lavoro subordinato e il mare della nuova precarietà esistenziale, con il suo gesto comicamente eversivo e irridente, aprì spazi imprevisti di libertà riepilogando in maniera quasi miracolosa quell’autonomia per la quale i giovani con le magliette a strisce degli anni Sessanta avevano offerto cuori e menti. Genova, Reggio Emilia, Torino Piazza Statuto, erano state le tappe di una autonoma libertà di lotta che avrebbe rotto l’organico legame tra classe operaia e PCI. Il ’68 avrebbe fatto il resto in un solo anno, prima che la porta stretta si richiudesse con fragore schiacciando in un mondo compatibile le possibilità di oltrepassarlo. Il ’77 mandava in frantumi quel mondo del compromesso welfarista, della mediazione politica, della rappresentanza democratica, facendo nichilismo, cioè la propria, separata, politica. “Sarà un risotto che vi seppellirà”.
Nietzsche tramite Bataille, Blanchot e il surrealismo, nella società dello spettacolo che era la società dell’austerità, aveva scomposto le ordinate categorie marx-leniniste, buttando all’aria liturgie leaderiste e organizzative e ridendo del connubio che i marxisti della cattedra e i cattedratici delle lotte avevano posto a fondamento della prassi. “Quale prassi?” era stata la domanda iniziale di Operai e capitale; la fine della prassi era stata la risposta che il movimento studentesco, gli indiani metropolitani, i collettivi femministi, i “fuori sede” e i cani sciolti, annunciavano contro la repressione e la nuova forma che aveva assunto lo Stato: leggi d’emergenza e stato d’assedio che produssero gli omicidi di Francesco Lorusso, Giorgiana Masi e Walter Rossi. La rivista “Rosso” riuscì allora a tenersi all’interno del ’77 laddove i tentativi autonomi di imprimere al movimento l’organizzazione di un contro-partito dell’insurrezione, vennero, fino ad un certo punto, bloccati. Una linea di contro-informazione seguiva l’inchiesta dei nuovi proletari dei circoli giovanili, la neo-lingua delle radio libere, una cultura nativa, selvaggia, straniera. Lo stato d’emergenza fu il luogo di espansione del movimento; esasperando lo stato d’assedio i nuovi soggetti con mossa acuta lo rovesciarono contro lo Stato.
Il pensiero di Tronti che sembrava non fare eco al “no future” e all’immaginario della nuova plebe emarginata, viaggiava sotterraneo e attraversava comunque i riti di massa delle assemblee e dei cortei in cui l’autonomia era libertà di sapere il potere, di sapere lo Stato per difendersene. Una generazione di “cani sciolti” rifiutava le identità, la classe, le appartenenze, e voleva l’erba voglio che continuava a crescere solo nel giardino del re. Per cogliere quell’erba non si era operai ma disoccupati, marginali, folli desideranti, schizo, che costrinsero i progressisti democratici a divenire reazionari. “Qui o si suona o si combatte” – dichiarava Kociss, indiano metropolitano che balzava su nelle assemblee e dava corso a splendide improvvisazioni. Un momento di rivoluzione si era realizzato al convegno di Bologna contro la repressione nella forma a cui nessuno aveva pensato. La parola rovesciava l’ordine del discorso che, dopo il ’68 la sinistra aveva ricostituito, investendo il mercato della virtù taumaturgica del sovrano. Vivevano sottoculture e non cultura egemone e culture subalterne; dada non Adorno; punk non dance; la posta del cuore di “Lotta Continua” non le postille al libro quarto del Capitale; Agnes Heller e la teoria dei bisogni, non il desiderio sotto la legge. Non si era marxisti, neanche “tendenza Groucho”, e da allora gli spettri di Marx iniziarono ad assillare il mondo globale.
Con il ’77 iniziava dunque la politica al tramonto che annunciava l’esodo dalla società del lavoro che Tronti racconta con lucidità come effetto degli anni 2000. Forse però l’effetto “operaista” più acuto, il raggio verde che brillò un istante e sfiorì la stagione riformista del compromesso storico, è balenato il giorno della cacciata di Lama dall’Università. “I lama stanno in Tibet” fu lo slogan ironico, pulito e forte come tutti gli stemmi dei non garantiti nei millepiani che si stendevano tra lo Stato e il lavoro, terra fresca di immaginazione e di affetti in cui abitare. In quel 17 febbraio gli “untorelli” cacciarono i promotori del contagio fuori dalla città. La violenza divina si era abbattuta letale e senza sangue sui fautori della violenza mitica esercitata dal Partito che pretendeva di governare il rifiuto con le garanzie sociali e i diritti del lavoro esercitati su chi non aveva né le une né gli altri. Quel sapere non bastò ad annullare gli effetti che innalzarono invece la memoria dello Stato e ridussero a quasi niente le cosiddette “soggettività”, infrante dalla lotta armata e dall’eroina. L’anno terribile non fu il ’77 ma il ’79 che iniziò con il 7 aprile. Il “teorema Calogero” volle far pagare tutto al ’77, la lotta armata, il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro. Memoria retroattiva che nel laboratorio italiano della repressione cercava il “grande vecchio” fautore del terrorismo e trovò chi aveva lottato senza armi e rischiava di vincere con la parola.
Mentre la trasformazione del sapere operaio è stata la sua dispersione, dopo il 1978 quel sapere non appartenne più alla classe operaia di fabbrica ma alla società diffusa, frammentata, irriducibile alla politica. “La società non esiste” – dicevano a Londra. L’autonomia del politico era diventata neutralizzazione del conflitto voluta dal capitale al tramonto della civiltà. Scacciata dalla fabbrica, dice qui Tronti, cominciò per l’idea rivoluzionaria il tempo dell’esilio. Di questa curva della storia si era consapevoli, sia che si fosse pro o contro l’organizzazione, pro o contro l’identità di classe e proletariato, pro o contro i bisogni di una generazione che aveva abolito il padre e sapeva di non avere eredi. E un eredità senza eredi non diventa tradizione:
Ci sono due risposte. La prima: iscrivere la contingente irruzione operaia […] nell’eterna vicenda delle classi subalterne, le sue eroiche lotte, le sue tragiche sconfitte: è la via storica. La seconda: riqualificare il punto di vista, nuovo senso di una battaglia delle idee, arte della guerra orientale, kenosis cristiana, mistica speculativa più politica della contingenza […] è la via teorica[…]. In realtà si tratta della sempiterna lotta di Giacobbe con l’Angelo, memoria e trascendenza, il “già stato” e il “non ancora”[…].
Da qui emerge la differenza con le successive insorgenze, dalla ‘Pantera’ a Seattle, a Napoli, a Genova, al movimento no global, alle rivolte nelle bainlieues, all’ ‘Onda’, che chiudeva il ciclo di conflitti contro il neoliberismo in espansione cosmica. Le crisi dei mutui e del debito sovrano, le primavere arabe e Occupy avrebbero sancito la fine dei movimenti sociali e annunciato insorgenze oltrepolitiche. L’effetto di lunga durata della vita neoliberale avrebbe forgiato un soggetto prodotto dalle sue mediazioni e dalle sue protesi; un soggetto il cui profilo è quello del cittadino democratico “libero” perché integrato, e che però è anche capace di rifiuto e di momenti di rivolta, come
è capitato l’altroieri con i gilets jaunes. Non c’è più da essere operaisti per insorgere, basta la povertà mondiale, e tuttavia ogni insurrezione
porta in sé la memoria di chi almeno una volta ha detto ‘no’, ha detto ‘ora basta!’, ha detto ‘che se ne vadano tutti!’.
Nel saggio raccolto in questo volume Marcello Tarì racconta questa vicenda il cui indice segreto è l’aut-aut, operai o capitale, e non il secolarizzato e…e…e… di chi “dentro e contro” le istituzioni si è trovato imbrigliato nell’antagonismo da esse imposto. La libertà, una volta sottratta al conflitto tra i valori da cui la trasvalutazione, diventa l’attuale e piatta libertà di pensiero che afferma miseramente l’egoismo dell’Occidente privilegiato e fallito. Capita infatti di scambiare il pensiero di libertà che Tronti continua ad affermare contro l’epoca, con la libertà di pensiero. Tutti, vittime e complici di questa deriva, ci si accorge che il gioco di antico regime è cambiato e che l’esodo è divenuto esilio permanente. E in esilio bisogna fare “tiqqun”; riparare e tessere amore e amicizie che è il gesto possibile tra le rovine.
Walter Benjamin aveva indicato la mossa obliqua che scarta l’affronto frontale con le forze di chi non smette di vincere: far giocare il materialismo muovendo i pezzi della scacchiera da sotto il tavolo per mano della piccola, fragile teologia. Il tramonto della politica manifesta le possibilità di un pensiero di libertà, cioè di percepire la propria soggettività, scrive Tarì, come un campo di battaglia, «il luogo di un’ascesi dove coltivare un pensiero libero che, quando è davvero tale, è in sé stesso una critica vivente a questa diffusa ma del tutto inoffensiva libertà di pensiero». Dall’abbandono della metafisica marxista il cui riverbero può durare secoli da che si è compiuta la distruzione della terra, è la klesis a permanere, come qualche anno fa ha scritto Giorgio Agamben. La chiamata, il rifiuto, l’irriducibilità rimane, ed è la chiamata della parte grande della popolazione mondiale, non protetta, non curata, non richiesta.
Rimane ciò che Tronti chiama con Nietzsche il “grande stile”, come evidenzia nel suo saggio Andrea Cerruti, che corrisponde all’esperimento di uomini e donne. Sperimentare una forma di vita, sperimentare una pratica comune, cioè mettersi in gioco, far entrare nell’errore i saperi personali più certi, le abitudini più vive, gli affetti più reali. Far naufragare nel gioco la verità di sé stessi. Destituire sé per comprendersi nel mondo. Prendersi cura della rivoluzione senza essere una particolare classe, laddove si è tutti massa borghese, bloom e jeune fille –
ma voler essere Zarathustra, l’ultimo uomo nella civiltà nemica.
Un filosofo dell’avvenire proverà a dirlo così: il tramonto della civiltà e dell’annessa antropologia è anche il tramonto dei paradigmi: la razionalità strumentale, la sovranità dell’eccezione. Lo stato d’emergenza infatti è divenuto norma e l’illuminismo secolarizzante ha prodotto disastri irreversibili. Come Foucault aveva previsto leggendo Nietzsche, il carattere esemplare del secolo è la distanza abissale tra verità e conoscenza. Prenderne atto è essere inattuali, farsi precedere dal presente non cercare di inseguirlo, errare quanto più si ha forza di retrocedere. Lasciare aperta la porta stretta da cui può giungere il messia vuol dire provare in sé stessi l’apertura del mondo, essere vuoti, essere in attesa. Matteo Cavalleri scrive qui che la teologia politica «assume le fattezze dell’esaurirsi della lotta tra il dio della storia e il demone della politica». E allora la situazione si fa più chiara, affermano alcuni del Partito Immaginario:
È […] l’esilio interiore a caratterizzare tutti i periodi di impotenza, diventando il primo asse di una comune morale provvisoria che si avrebbe torto a definire prepolitica: rifiutare la partecipazione e il suo corollario, quello di ogni riformismo insidioso, per essere figure di questo mondo solo in quanto transeunti.
Se l’interesse di Tronti per la teologia, scrive Marten Björk «nasce dalla consapevolezza dell’incapacità della razza pagana operaia di superare il capitalismo così come il mondo statalizzato del socialismo», aggiungiamo che una pratica ascetica, che è meditazione, studio e scrittura del mondo, potrebbe avere l’effetto di trasformare la qualità della natura umana. La teologia della rivoluzione «inizia quindi dal collasso del comunismo e dal fallimento della modernità di cui esso era parte». Dello spirito libero:
Che cos’è […] per me spiritualità? È coltivazione di sé, non per sé, ma contro il mondo. Non fuga mundi, come non è mai stato nemmeno per il monachesimo, ma presenza nel mondo, inattaccabile dall’esterno.
Giulia Dettori vede l’esito che Tronti dà alla teologia nell’esperienza, ove si inizia a parlare di «un’azione trascendente che consenta di stare nella storia e in tutte le sue congiunture ma liberi da essa». Oppure, aggiungiamo con Benjamin, avere una totale mancanza di illusioni nei confronti dell’epoca e ciò nonostante pronunciarsi senza riserve per essa. Fare messianesimo, questa è la prova a cui siamo chiamati. Vivere secondo la genealogia messianica dell’evento, da Gesù Messia a Paolo di Tarso, alla gnosi, a Marcione, a Benjamin secondo Jacob Taubes, e percorrere la via dell’esilio una volta lasciatoci dietro il “bordello della storia” che è oggi la forma assunta dalla democrazia liberale. Revocare il proprio stato presente rimanendo in esso e resistere alla tentazione di tornare agli antichi miti di fondazione della sovranità, sono i passi da seguire perché non c’è più niente da fondare né da statuire, malgrado l’illusoria replica teorica di chi vuol salvare il mondo; niente più da progettare e da costruire. C’è solo da abbandonare la città e casomai da abitare la terra secondo il nomos, che è il canto fuorilegge, non la legge dei confini.
Fabio Milana, fenomenale studioso, animatore della rivista di spiritualità e politica “Bailamme” uscita tra il 1987 e il 2002, esperto e curatore dell’opera di Ivan Illich, ricostruisce la collaborazione di Tronti al semestrale di cui fu redattore. In quel tempo, tra i primi e gli ultimi anni Novanta, gli incontri all’eremo camaldolese di Monte Giove, il cui precedente erano stati gli incontri di Montebello con Sergio Quinzio, Massimo Cacciari, Gabriella Caramore, Luisa Muraro, con la regìa del direttore della rivista Pino Trotta e di Romana Guarnieri, sarebbero stati l’inizio della «consunzione parallela e accalorata delle due tradizioni politiche maggioritarie nella storia repubblicana», la cattolica e la comunista di partito.
Perché come nel saggio del ’90 Volgere le spalle al futuro «decisivo, anche per noi, nello sguardo del comprendere, è risalire il fiume, non seguire la corrente». Tra filosofia dell’avvenire e retroversione verso l’origine non c’è contraddizione. Nel saggio Il sorriso di Sara, Tronti avanzava l’idea nuova in cui sono deposti i marxismi novecenteschi e Marx può forse godere di una nuova interpretazione:
Fatica ascetica e tempo agonico. Solo la vita monastica sa stare in questa dimensione. Tenere insieme l’insonnia della ricerca, il vegliare, l’invito neotestamentario a stare in paziente attesa e la pace del cuore, l’hesichia o requies, mezzo e scopo della preghiera monastica.
A far eco troviamo sulla rivista Qui e Ora, le parole di don Flavio Lazzarini a commento del recente annuncio di Giorgio Agamben in Quando la casa brucia: «Negli anni a venire ci saranno solo monaci e delinquenti». La vita d’esilio «di chi cerca uno stile monastico, rifiuta omogeneità, complicità, regole e gerarchie inaccettabili da chi pretende di cercare Bellezza e Verità». Accettare la solitudine in un mondo in cui si è tanto dentro quanto più lontani, è «essere disarmati per non rompere fraternità, sonorità e comunione. Ma non si potrà rinunciare alla parresia, al dovere radicale di cercare e dire sempre la verità critica ed etica». La lingua d’esilio è quella dello straniero che nella modernità in polvere, spacciata per libertà e abbondanza, è penuria e occasione. Poros e penia, figure di Eros siglano la solitudine in cui l’agire è deposto nel punto di vista, nella presa di posizione a cui segue la presa di parola. Così facciamo perché qui siamo, si potrebbe ripetere e sarebbe questa presenza ad avere qualcosa più della testimonianza e meno della prassi consolidata in formule magiche. Di questo luogo dello straniero, fuori e contro la città, non più disposti a discutere con chi attenta all’esistenza con democratica informazione e accademiche prescrizioni, Qui e Ora propone di sperimentare l’estremo possibile, cioè una forma di vita in cui contemplazione, conflitto e ricerca si implicano. Si tratta di spostarsi con fede e coraggio tra testi ed esperienze asincrone, coniare una lingua, affermare lo spirito libero fuori e contro l’Occidente. È questo l’impegno «nel mondo di chi vuole andare al di là di questo mondo […] al di là delle presenti forme di vita». E oggi più di ieri bisogna fare “come non”. Perché il tempo si è contratto, “voglio che siate senza cura”.