Negli stessi giorni in cui
avveniva la disfatta di
Caporetto comincia
una delle più durature
amicizie letterarie che il Novecento
ci abbia consegnato, quella tra il
ventunenne Eugenio Montale e il
quasi diciottenne Sergio Solini, conosciutisi a Parma, mentre frequentano la Scuola d'Applicazione
di Fanteria. Di questo sodalizio, in
cui Montale spicca come capofila lasciando all'altro il ruolo dello spurringpartner, rimane un monumentale corpus epistolare, finora inedito, portato alla luce con grande dedizione e competenza da Francesca
D'Alessandro, una delle più accreditate studiose dei due autori.
Le carte provengono sia dalla
Fondazione Natalino Sapegno di
Morgex, sia (in misura minore) dal
Centro Manoscritti Autori Contemporanei di Pavia e sono il risultato di
una frequentazione che si esprime
nelle ambizioni letterarie, nel racconto della quotidianità, nella partecipazione alle vicende di un'Italia
che esce malconcia dalla Grande
Guerra per gettarsi nel baratro della
dittatura mussoliniana. E vero che
dal punto di vista cronologico
l'estensione del carteggio abbraccia
sei decenni: si va cioè dalla cartolina
di una veduta di Genova, inviata da
Montale a Solmi il 28 febbraio del
1918, alla cartolina con il panorama
di Forte dei Marmi, spedita sempre
da Montale il 7 luglio 1980, circa un
anno prima della sua scomparsa.
Tuttavia il grosso dei materiali
(320 documenti dei complessivi
338) appartiene a un Orizzonte di
anni intenso ma limitato al periodo
tra i due conflitti, come se lo spartiacque del 1945 avesse rarefatto i
contatti a tal punto da relegare solo
le ultime 18 missive al periodo della
ricostruzione, al decennio del boom
economico e della contestazione,
agli "annidi piombo".
La lettura del carteggio non
aiuta a comprendere le ragioni per
cui i rapporti perdono di intensità
in coincidenza con il nascere del -
'Italia repubblicana e sarebbe troppo ovvio attribuirne le cause alle
differenti velocità con cui procedono le carriere letterarie dei due amici. Ma questo, per quanto vistoso, è
solo uno dei temi che il libro propone. Assai rilevante è, per esempio, il
dibattito tra vocazione letteraria e
professione, una questione che
Solmi risolve ben presto, trasferendosi da Torino a Milano per svolgere il lavoro di impiegato di banca alla Comit, e che Montale invece continuerà a rinviare, adattandosi anche a impieghi precari - prima
presso l'editore fiorentino Bemporad, poi presso il Gabinetto Vieusseux - ma sempre interpretando la
parte dell'intellettuale irrequieto e
lamentoso, di chi non si fida del
prossimo, salvo poi rivedere alcuni
frettolosi giudizi, come avviene per
Giacomo Debenedetti, uno dei meno stimati agli inizi e successivamente una delle voci più temute e
considerate. Tutto ciò conferma la
diversa impostazione che trapela
dal profilo dei due interlocutori:
Solmi manifesta maggiore inclinazione per l'esercizio critico (ed è lo
stesso Montale a incentivarla), l'altro per quello poetico.
Indubbiamente è chiara a entrambi la sensazione di vivere una
stagione in subbuglio, un'epoca in
cui, per fare buona letteratura, bisogna cimentarsi con i macabri edifici
eretti dalla Storia e il proporsi all'attenzione delle generazioni più
adulte - siamo negli anni che stanno
sulla soglia della stagione rondista
li obbliga quasi a vestire i panni dei
battitori liberi, lontani tanto dalla filosofia idealista della «Voce» prezzoliniana, quanto dalle tendenze
che caratterizzavano gli anni attraversati dal vento tempestoso delle
altre avanguardie. «Tutti gli ismi
contemporanei mi hanno nauseato» scrive Montale a Solmi il 17 aprile 1920. E il desiderio di smarcarsi,
la volontà di percorrere in solitudine la strada di poeta diventano
un'esigenza più volte annunciata:
segno di autoconsapevolezza, certo, ma anche di lucidità che il futuro
Nobel nel più autorevole dei modi,
nella già ricordata lettera del 17
aprile 1920, dove il tono dell'incertezza lascia il terreno sgombro per
accogliere un barlume di verità:
«Per me la poesia dev'essere una
sintesi di sentimento, pensiero, intuizione e cultura, valori umani e
valori puramente estrinseci. Tutto
sta nell'equilibrio».
Qualche mese dopo, il 4 agosto, scrivendo da Monterosso,
Montale puntualizza ancora meglio
il suo pensiero: «l'arte non è un fatto
puro: è un'equazione tra idea e materia, tra cultura e sensibilità verg,ine, un accordo tra calori etici ed
estetici, una bilancia che deve raggiungere l'equilibrio che è per me la
perfezione ultima».
Sarà anche vero che in uno dei
più celebri Ossi di seppia (1925) egli
confesserà di possedere certezze
raggiungibili solo capovolgendo all'incontrario il metodo conoscitivo
(«Codesto solo possiamo dirti: / ciò
che non siamo, ciò che non vogliamo»), ma è proprio in questo stato
di indeterminatezza, latente ma fecondo, che sta la sua identità di uomo, almeno nel periodo che precede il debutto nelle edizioni Gobetti.
«Continuo a camminare in filo di
rasoio» dichiara il 16 luglio 1923.
«Borghese tra gli artisti, artista tra
i borghesi - ateo frammezzo ai mistici, mistico tra gli uomini "positivi" - freddo tra i sentimentali, ma
tutto lattemiele fra gli apostoli della
ragion ragionante».
C'è tutto Montale in questo
autoritratto di parole: la sua complessità, il ricco spessore di sovrapposizioni, i rari slanci emotivi, le
sporadiche attestazioni di stima
(per Quasimodo, per esempio), le
pungenti invettive su Ungaretti o
Titta Rosa, le frequenti omissioni
(una fra tutte: la morte di Gobetti,
nel 1926, passata inosservata nel -
l'epistolario per evidenti ragioni di
censura e diventata oggetto di una
fra le prose a lui attribuite, pubblicate in appendice, a cura di Letizia
Rossi). Ma questo è il tributo che bisogna pagare al suo talento, alla sua
problematica teoresi, che si consegna al lettore come una pietra di inciampo per un certo Novecento,
ombroso e tuttora indecifrato.