Recensioni / Frazer, dal Carnevale al Venerdì santo attraverso il «ramo d'oro»

Carnevale e Venerdì Santo potrebbero non essere così lontani. O almeno potrebbero non esserlo stati all’inizio, quando Gesù morì sulla Croce, forse al culmine di una rappresentazione rituale dai connotati in gran parte inquietanti. No, non è una trovata alla Dan Brown, ma un’ipotesi avanzata oltre un secolo fa da uno studioso dall’autorevolezza quasi leggendaria, James George Frazer (1854-1941). Collezionista di miti e pioniere della storia delle religioni, cultore dell’antichità classica e, più che altro, autore de
 Il ramo d’oro, un libro destinato a esercitare un’enorme e durevole influenza sulla cultura del Novecento. Proprio nell’edizione del Ramo d’oro pubblicata nell’anno 1900 Frazer si sofferma su una serie di coincidenze che parrebbero accomunare il racconto evangelico della Passione con la vicenda - narrata nel Libro di Ester - del visir Aman, messo a morte dal re persiano Assuero sulla forca che Aman stesso aveva predisposto per l’ebreo Mardocheo, suo avversario. Per Frazer il supplizio di Aman, ritualmente ripetuto ogni anno durante la festività di Purim (corrispettivo ebraico dei Saturnali latini, a loro volta antenati del nostro Carnevale), suggerirebbe uno scenario del tutto inatteso in cui collocare la Crocifissione di Cristo: Gesù potrebbe essere stato scelto infatti per impersonare Aman e quindi elevato al beffardo rango di re del sacrificio, ossia di vittima designata, capro espiatorio. Una congettura ripresa e ampliata da un altro importante studioso dei linguaggi simbolici, Edgar Wind, in un paio di scritti dei tardi anni Trenta ora riproposti da Andrea Damascelli insieme con il capitolo del Ramo d’oro che lo stesso Frazer volle espungere dalle successive edizioni del suo capolavoro. Wind, in particolare, sottolinea il parallelismo tra le figura di Cristo crocifisso e del supplizio di Aman negli affreschi della Cappella Sistina, per i quali Michelangelo avrebbe adoperato come fonte il passo del Purgatorio in cui Aman è definito da Dante «un crucifisso dispettoso e fiero», a conferma di una complessità di intrecci che lo stesso Damascelli ripercorre con estremo equilibrio nell’ampio saggio posto a suggello del volume. Una questione erudita, certo, che però investe direttamente il nucleo e, per così dire, lo stile della predicazione di Cristo. In fondo, il grande narratore delle parabole potrebbe benissimo aver accettato di ricoprire il ruolo della vittima nella finzione di Purim, trasformandola così nella più radicale e necessaria delle sofferenze, quella del Dio che si incarna, patisce e, in questo modo, compie il mistero della Redenzione.