Recensioni / ‘Preferivo Mies a Le Corbusier’, Rem Koolhaas nella città che non esiste più

Alcuni anni fa, un amico sudamericano che si occupa di programmi educativi per il ministero del suo paese, mi pose la domanda secca: preferisci Mies o L.C.? Intuendo la serietà della domanda, date la preparazione accademica e l’esperienza del mio interlocutore, risposi L.C.
Anche Koolhaas nel suo bel libro Testi sulla (non più) città esordisce con lo stesso interrogativo, confessando però di preferire Mies a L.C. e aggiungendo, Leonidov a Gropius. I testi del suo nuovo libro sono conseguenti a questa sua onesta premessa. Il libro è una riflessione sulle città. Costruzioni dell’umano. Dalle città della sua infanzia fino alle città visitate e conosciute attraverso lo studio e il lavoro.
A differenza del mio amico sudamericano di lingua spagnola, che cercava con la sua domanda di essenzializzare il mondo complesso delle città e delle realtà più o meno urbane che conosceva, R.K. riflettendo sulla “costruzione della città” e premettendo la sua preferenza per Mies e Leonidov, prosegue, confessando fin da giovane la preferenza verso “Broadacre city” di Frank Lloyd Wright, come città possibile del/di futuro, riconoscendo in essa l’unica capace di possibili risposte alla complessità e alle contraddizioni degli anni dei suoi studi universitari.

Alcune di esse le ho potute visitare e ne condivido le descrizioni. Sono per lo più città “paradigma”, esempi di dinamiche “universali” che evidenziano le evoluzioni e a volte le involuzioni delle città del mondo intero.
Rem K ha una capacità di lettura e di analisi formali, sociali, economiche, profonde delle realtà urbane, nonostante alcune riflessioni sembrino un po’ estreme, a volte senza speranza.
Spesso la lucidità e le considerazioni secche rischiano di apparire crude e inequivocabili ma hanno comunque il merito di sollevare questioni importanti. Atlanta, NY, New Orleans, Singapore, Tokyo, Melbourne, Mosca, Rotterdam, Berlino, Parigi, Lille, Brasilia sono gli spartiti in cui gli “acuti” di Koolhaas interpretandone i brani ne evidenziano le dinamiche e le forme. La Sostanza.
Una sostanza urbana completamente nuova dice Manuel Orazi, curatore del libro, nelle pagine dell’introduzione. Le analogie tra Rotterdam in qualche forma prima città di K (RK vi nasce nel 1944) e Berlino, città di adozione e accomunata dall’esperienza dei bombardamenti pesanti della 2° guerra mondiale e dalle relative ricostruzioni, permettono a K di osservare la città in maniera “altra”.
Berlino diventa città della critica alle esperienze di Krier, Rossi, Kleihues e gli altri architetti che avevano deciso di fare di Berlino il laboratorio della ricostruzione della città europea, compatta e densa. K si pone in controtendenza aderendo alle proposte controcorrente della città arcipelago verde (espressione urbana ed europea delle visioni urbane di Wright), proposta da e con O.M. Unghers.
Nelle riflessioni che hanno Berlino come laboratorio, è interessante l’attenzione rivolta ai vuoti nella città, spazi liberi e di libertà, ma che in una logica oggettiva e binaria caratterizzata dall’antagonismo ai pieni, i volumi degli edifici, riducono entrambi a singolarità e non a parti del tutto. Le relazioni spaziali cedono il posto a relazioni processuali.
Nelle descrizioni dei fenomeni urbani RK persegue l’oggettività attraverso l’astrazione. Questa ricerca di astrazione se da un parte permette un’analisi “oggettiva”, dall’altra rischia di sistematizzare e di idealizzare il punto di vista sulle città diventando di fatto il filo conduttore del libro, dalla città “territorio” profetizzata e auspicata da Wright, alla città arcipelago verde di Ungers, alla “campagna” di oggi e domani come possibile futuro “smart”.
Idealizzazioni e astrazioni, eliminando il “racconto” rischiano di rimanere fredde descrizioni dello stato di fatto. Senza spazio per il progetto e la progettualità. Le città non possono più essere oggetto di manifesti, dice RK, ma possono essere solo esse stesse “città-manifesto”, presa d’atto dell’incapacità e dell’impossibilità di governarle, o almeno di provarci…
È una dichiarazione di idealismo e di umiltà, dice l’autore. Purtroppo forse più in alcuni epigoni che in lui, tali posizioni corrono il rischio di diventare nostalgiche, sebbene di una nostalgia del futuro e di dare adito a fraintendimenti quando l’umiltà viene confusa con una mancanza di presa di posizione. Di scelta.
K dice di non pensare da architetto, lasciando in sospeso il dubbio che questa attitudine possa essere, sempre, una virtù, sebbene sia innegabile che ciò gli permetta di “interpretare” ruoli diversi. Architetto, Urbanista, Giornalista, Sceneggiatore.
Il libro apparentemente è un invito al realismo. Partendo dall’esperienza di Rotterdam, la cui ricostruzione postbellica da modello diventa esempio da non imitare, invita al “realismo” del dire che non c’è nessuna crisi invitandoci alla possibilità dell’urbanistica come “Gaia Scienza …” prendendo atto che la città è ciò che è (e basta …).
Potrebbe sembrare un atto di coraggio e di “saggezza” ma di fatto rischia di semplificare ed escludere le contraddizioni del presente rinunciando a possibili progettualità, accettando come inevitabili i “disagi” di chi subisce lo stato delle cose…
In questo frangente nemmeno in una mera logica funzionale si può dire “basta che funzioni”… Non funziona!
Le sue letture sono acute, un invito ad osservare le realtà che ci circondano, ma mancando di un fine che non sia (solo) descrizione, rischiano di rimanere bloccate su loro stesse. Anche la sottolineatura della differenza tra architettura ed urbanistica considerate discipline tanto distinte, e correlata da una idea di architettura come ordine e onnipotenza che non può che far propendere l’autore, data la premessa, per un’attrazione inevitabile per il vuoto e le sue possibilità (aperte), fanno perdere tutto ciò che il progetto urbano potrebbe ancora tenere assieme e generare contribuendo al progetto della città.
L’idealizzazione se da una parte è necessaria per poter tenere viva l’immaginazione, dall’altra rischia di rimanere tale perché a contatto con la concretezza e la complessità della realtà si ritira nella sua autosufficienza, tanto utile ad alcuni architetti, ma così poco adeguata alla costruzione delle città e dei territori.
La conclusione poi, in cui per uscire dal corto circuito si propone la campagna come la soluzione, è interessante perché propone di occuparsi anche dei territori “esterni” alla città, ma rischia di diventare una fuga dalla città e dalle sue complessità. Dalle sue sfide e dai suoi conflitti.
Pensare di evitarli evadendo nella “natura” li ricreerebbe semplicemente differenti nei modi e nelle forme ma non nella sostanza. Tanto vale affrontarli nel loro qui e ora, già esistenti.
K ne suggerisce un modo interessante raccontando l’esperienza del nodo gordiano di Lille e dimostrando che democrazia e complessità sebbene in un modo apparentemente ricattatorio (nemmeno tanto apparentemente, diventando il ricatto, necessario al fine) possano coesistere …
La questione e lo dice bene RK è sempre il tutto, città e “campagna”, pena non capire il nostro stare al mondo … che è sempre domanda, ricerca, “creazione” di (ipotesi) di senso. Lo sapevamo già ma è bene venga ripetuto.
Ma se il senso e’ solo oggettivo, come quello perseguito da Unghers per Berlino, senza memoria, colpa e storia, così importanti invece per Rossi e Co. (Anche Wenders, altro tedesco, che da cineasta si pose il problema del senso di raccontare storie e arrivò alla conclusione di non poterne -lui e noi- farne a meno … ) diventano complicate la città e pure la campagna.
Pensare che la campagna diventi “urbana”, perché si fa Smart, come si accenna nel libro, e’ uno slogan che può aiutare a darsi un obiettivo, ma rischia di essere una delusione come quella di chi si ritrova con un modello piccolo industriale europeo in crisi.
Delusione che rischia anche il contadino contemporaneo, proposto nel finale, una volta sconnesso l’i-Pad, capace di programmare la mungitura, in quanto la tecnologia può aiutare un processo, ma non sa dare risposte!
Forse è un po’ questo il senso del libro. Porre domande, questioni, più che dare risposte. Con osservazioni acute e taglienti come la constatazione che il fallimento dell’urbanistica è avvenuto proprio quando c’era più bisogno di essa negli anni della grande espansione urbana e non urbana. Come l’osservazione che la grande impresa multinazionale si sia sostituita allo stato nel “progetto” dei territori … tutti, urbani e non. Nell’invito che in tale scenario forse è la gentilezza e il suo perseguimento una delle strade possibili. Che accadrebbe se tanto impegno fosse riposto nel suo perseguimento? Nel ragionamento relativo alla possibilità della pianificazione complessa in una democrazia europea … (esempio Euralille)
Nell’ipotesi della maglia della Grande Parigi capace di assorbire l’asse della Defense, paradigma dei territori e del loro sviluppo nel mondo? Del paradosso di Brasilia, in cui ha vinto il mercato. E della riduzione delle tante tipologie alle sole due tipologie della baracca e del grattacielo, simboli della nostra deriva sociale ed economica?
Nella constatazione del passaggio dalla triade “Liberté, Egalité, Fraternité” al mito del “comfort, sicurezza, sostenibilità”, in realtà rifugio dal conflitto e dalla complessità. Cose che RK dice e che sono un invito alla lettura di questo libro.

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