Nei Saturnali della Roma antica si metteva a morte un finto sovrano giovane e bello
Tra quelle infime derive che la storia a volte crea, può accadere di imbattersi in una figura bizzarra.
È un curioso personaggio che si ammanta delle insegne regali e che è fatto oggetto di scherno e valutazione. È un re. O almeno così appare, o dice di essere. Di solito la sua sovranità lambisce la decadenza di un’epoca, ne ravviva le ombre. E sembra, allora, che giochi, come un bimbo, con il declino che tutto e tutti avvolge. La figura ridanciana si fa carico di un potere eccessivo, mostra il suo lato meno cupo, ma non per questo meno insidioso. Ogni volta ci sentiamo attratti da questa recita trasgressiva, scorgiamo la stessa stravaganza che Svetonio nella Vita dei Cesari ritrova in Nerone, in Caligola, in Eliogabalo. Ed è come se improvvisamente la sovranità porga il proprio orecchio all’altezza della voce di un popolo, ne ascolti (deliziata o irritata) i motteggi, gli insulti, la derisione, ma anche l’adulazione più sfacciata. Quel costrutto, minaccioso e ilare, non rinuncia tuttavia al suo mandato teologico, alla sua discendenza divina.
Come è possibile dunque che un potere, intangibile e remoto, legato alla ritualità del sacro, si nutra di una sostanza così greve? C’è un saggio di James Gorge Frazer dedicato ai Saturnali e alla crocifissione del Cristo – che ora appare per la prima volta in italiano (La crocifissione del Cristo, pagg. 254, euro 16, curato ottimamente da Andrea Damascelli, edizioni Quodlibet) – nel quale si abbozza una risposta, in larga parte involontaria.
Nel 1890 – in uno di quei momenti in cui la storia si immagina felicemente in marcia – uscì Il ramo d’oro di James Gorge Frazer. Era un’opera di intensa ingegneria spirituale nella quale agivano le forze razionali il cui compito era di spiegare su quale base il mondo umano aveva costruito le proprie civiltà. Frazer – figlio di un farmacista e del positivismo ottocentesco – andò a stanare il rapporto che l’umanità aveva da sempre avuto con la credenza, le superstizioni e naturalmente le religioni.
Tra quelle migliaia di pagine, che esordivano accostando un quadro di Turner a un bosco sacro dell’Italia arcaica, Frazer aveva inserito un capitolo dai tratti culturali espolsivi. Egli amava spesso divagare. Con la frenesia dell’accumulatore compilava lunghe annotazioni. Ma rispetto alle vaste comparazioni fin lì condotte quel capitolo, dedicato alla crocifissione di Cristo, sembrava una deviazione troppo netta. Una stranezza. Un’escrescenza. La provocazione che un ateo (almeno tale era stato considerato) lanciava contro il cristianesimo e le sue origini. La tesi, ancorché fragile nello sviluppo, era affascinante. Frazer – come in un gioco di scatole cinesi – immaginò che la passione e poi la crocifissione del Cristo per larghi tratti si poteva ricondurre al Purim, una festa ebraica che mostrava degli evidenti legami con le Sacee babilonesi e i Saturnali romani.
Frazer – colpito dal fatto che durante i saturnali c’era l’usanza di mettere a morte un finto re – descrive il modo in cui i soldati celebravano ogni anno quel rito cruento e pagano: «Trenta giorni prima della festa sceglievano tra loro, sorteggiandolo, un uomo giovane e bello, che veniva vestito con abiti regali perché assomigliasse a Saturno. Così ornato e scortato da uno stuolo di soldati, questi andava in giro in pubblico, autorizzato a dare libero sfogo a tutte le passioni e a gustare ogni piacere, per quanto vile e ignominioso». Allo scadere dei trenta giorni – durante il quale il falso re si permetteva qualunque licenza – l’impostore si dava o trovava la morte tagliandosi la gola. Era, il suo, un regno breve, gioioso ed efferato: burlesco come saranno in seguito certi Carnevali italiani, ma anche sommamente tragico come dimostra l’anonima cronaca del martirio di San Dasio. Soldato romano, convertito al cristianesimo, e di stanza sul Danubio, Dasio viene prescelto per svolgere la parte del finto re. Il suo rifiuto lo condurrà al martirio e poi alla morte. Ma cosa c’entra tutto questo con la festa di Purim? Nel Libro di Ester si narra della festa che venne istituita per commemorare la liberazione degli ebrei dal pericolo di cadere sotto il giogo persiano durante il regno di Serse. I contenuti di quel rituale liberatorio e gioioso richiamano, secondo Frazer, i tratti fondamentali delle Sacee babilonesi che sfociavano come è noto in un frenetico baccanale. In quell’occasione c’era l’usanza di mascherare uno schiavo da re. Quel sovrano provvisorio alla fine del suo “mandato” moriva sulla forca, o a volte, sulla croce. Anche nel Libro di Ester c’è un finale cruento e lieto. Fra intrighi di corte e complotti contro il re Assuero, si svolge la vicenda di Aman, visir del regno di Assuero e di Mardocheo, un ebreo influente e giusto che si rifiuta di onorare la carica di Aman e per questo è accusato dallo stesso Aman di congiurare contro il re. La pena richiesta prevede lo sterminio degli ebrei e l’impiccagione (o crocifissione) di Mardocheo. Ester, sposa di Assuero, implora il re di risparmiare il suo popolo, e svela che a capo della congiura c’è Aman che a quel punto il re fa giustiziare. Quanto a Mardocheo, che aveva fatto fallire il complotto, viene portato in trionfo. Aman, nella tradizione festosa del Purim, subirà, dice Frazer, una trasformazione parodica, diventando egli stesso un finto re, oggetto di scherno.
Molti studiosi hanno rilevato le forzature, l’approssimazione con cui l’antropologo accostava vicende storiche e letterarie molto diverse. In soccorso, almeno parziale, alle sue tesi, venne Edgar Wind, studiosi d’arte legato alla scuola di Warburg che nel 1938 rianalizzò la morte di Aman riconducendola ad un affresco di Micheleangelo, e ad alcuni versi di Dante. In quell’affresco, un dettaglio della Cappela Sistina, l’esecuzione del Visir raffigura un uomo crocifisso. Aman come il Cristo? L’idea che la morte di Gesù fosse accostabile a quella di Aman, quantunque suggestiva aprirebbe una questione delicatissima.
Può il cristianesimo fondarsi su una parodia? Frazer si tenne alla larga da una simile conclusione (tanto vero che espunse il capitolo sulla crocifissione da Il ramo d’oro e lo stesso Wind, ove avesse accolto pienamente una simile lettura, avrebbe visto sfigurarsi il volto stesso della storia. Sia Frazer che Wind non furono del tutto indenni alla suggestione che la passione del Cristo, pur nella sua tragedia, ricalcasse il paradigma del finto re: la corona di spine, lo scherno dei soldati, le grida della folla tumultuante erano indizi a carico di quella versione. Che il Cristo fosse una variante di quel modello parodico è stata in seguito respinta e smontata da gran parte degli studiosi.
Resta una questione che Frazer e Wind lasciano sullo sfondo: chi è il re? Vi è un potere che aspira alla regalità, all’unto, alla non contraddizione. Esso si serve di quel retroterra sovrannaturale, grazie alla quale cerca di infondere ai propri gesti una natura divina. Al tempo stesso quel potere si può mostrare buffonesco, logorroico, impertinente. Esso ci appare come un mero scherzo, una maschera comica, segnata da una corona sbilenca e instabile sempre sul punto di rovinare miseramente al suolo. Di norma, quei finti re, scherzosi, gaudenti, che venivano eletti nel corso di una baldoria, avevano vita breve. Duravano il tempo di una festa. Sufficiente tuttavia per mostrare il lato nascosto della sovranità.
Nella folle Ninive, racconta Frazer, si poteva incontrare un antico Ercole persiano dalle accentuate movenze femminee. Incedeva tra la folla come un re. A volte era un re, irriconoscibile: la biacca sul viso pallido, le ciglia annerite dal bistro, carico di anelli, catene e orecchini, con l’ascia in una mano e la coppa di vino nell’altra.
Chi vedesse in queste insegne ridicole il puro aspetto licenzioso e stravagante, perderebbe di vista quel bisogno che il potere a volte ha di mostrare il suo volto indegno. Il potere grottesco – che con il potere criminale condivide l’arbitrio assoluto – non è semplice rappresentazione teatrale, e non si esaurisce nell’acclamazione in vista di un riconoscimento. Il potere grottesco è l’altra faccia del carisma. La sua nudità. Che il sovrano, a volte, riveste di infamia.