Nell'aria di Roma c'è una primavera che mette
al centro la forza, la passione e la genialità di chi pensa,
inventa e produce arte contemporanea. Un fenomeno
inaspettato in una città spesso strafottente, annichilita
dalla spazzatura e dai cinghiali, immobilizzata dal traffico, gloriosa del suo passato e che però sa riconoscere
e accogliere il moderno talento e la bellezza. «Gruppi di artisti si sono messi insieme a partire dai bisogni
concreti: avere spazi grandi, meno spese, più forza nel
mercato e quando l'hanno fatto hanno scoperto che
era bello, funzionava, li rendeva anche più felici», dice
il filosofo Giuseppe Armogida, che con altri ha creato
Spaziomensa a Roma Nord, in via Salaria. Un run space
(spazio espositivo autogestito) pieno di luce, nato dove
prima c'era la mensa di un'ex cartiera.
Un libro appena uscito dal titolo Vera (Quodlibet) ne
ha contati otto, che contengono 54 studi e ospitano
in totale 74 artisti, come in una matrioska. Altri ne
arrivano. Damiana Leoni, manager ed esperta d'arte, di
formazione ed esperienza internazionali, che ha curato
Vera, spiega: «Roma ha avuto nel tempo esplosioni artistiche, ma mai c'era stato un simile momento corale e
dinamico. Gli spazi degli artisti chiamano gallerie, atelier e altre realtà creative, e così si generano piccoli hub
culturali». Secondo lei, questo è un big bang di lunga
durata, mentre altri sono più cauti. Noi siamo curiosi e
siamo andati a vedere.
Dal gigantesco viale Palmiro Togliatti si prende un vicolo per sbucare in un piccolo slargo davanti a
un condominio popolare: sembra che la strada termini
qui. E invece dietro un cancello, alla fine di una discesa
talmente ripida da temere per la propria incolumità, si
aprono tre porte e dietro mille e cento metri quadrati si
arriva a Post Ex, in zona Centocelle, sud della capitale,
quartiere popolare, prezzi ragionevoli, famiglie che lì
vivono da sempre, partite Iva e un numero crescente di
artisti. L'enorme spazio è stato affittato da sei giovani
creativi in solido per 12 anni ed è diventato officina
d'arte. C'è freddo qui dentro, i tetti sono altissimi, ma
il tepore lo creano gli artisti e le artiste che sbucano
dai loro laboratori, tra elettrodomestici recuperati dalla
strada, sacchi di cemento, assi di legno, tele colorate e
installazioni, pronti a raccontare le loro storie, tra una
tisana e una birra. Tra i fondatori di Post Ex c'è Lulù
Nuti, bella come un'attrice, le mani spesse da artigiana,
uno dei suoi progetti più affascinanti è Calcare il mondo. Di fronte ai cambiamenti climatici, alla sparizione
di pezzi interi del globo e alle colonizzazioni di Marte,
Lulù crea copie dell'orbe terracqueo «per poterlo riprodurre altrove». E tornata a Roma per amore. Con il
suo fidanzato falegname vivevano a Parigi e «dovendo
scegliere tra le due città, ha vinto Roma». Il podio non
era scontato: «Qui posso dire agli artigiani che li pago
un po' più in là e questo studio costa un decimo rispetto a Parigi: lì avrei 10 metri quadri, qui ne ho 100».
Tra i fondatori, c'è un altro expat di ritorno, sempre
per amore. Luca Grimaldi è andato via da Roma a
20 anni e ha girato il mondo tra residenze artistiche e
anagrafiche: New York, Olanda, San Pietroburgo, poi
Berlino, senza mai perdere l'accento romano né la memoria dell'adolescenza vissuta nei '90, presente nelle
sue opere. Seguendo la sua compagna che andava cercando «la gentilezza e il calore dei rapporti umani che
solo Roma sa darti», è planato sulla Capitale trovando
una città viva e ricca di artisti della sua generazione.
Lavorare nello stesso spazio cambia ognuno di voi? Risponde Lulù: «Moltissimo. C'è uno scambio intenso di
conoscenza e di tecnica, ti senti parte di un'intelligenza
collettiva». Gian Maria Marcaccini, che qui a Post Ex
ha qualche lustro in più dei colleghi, chiosa: «Adesso
siamo una massa critica sufficiente per creare energia,
confronti ed esposizioni in via autonoma». Luca aggiunge: «Riduce la frustrazione quando il mio lavoro
si ferma: vedo il fermento accanto, so che dopo un po'
riparto». Anche creare e
curare le relazioni umane
è un'arte e le persone che
vivono e lavorano dentro
questo luogo stanno creando un format di vita
ispirativo per chiunque.
Quando vuoi indicare una periferia estrema, citi Tor Bella Monaca, uno dei quartieri più poveri di Roma e d'Europa. Nel 2018 l'apertura della stazione San Giovanni lungo la metro C ha accorciato le distanze e adesso bastano 40 minuti, ma la connessione più veloce «non ha aumentato il numero di persone che vengono qui a vedere le mostre», dice Christophe Constantin che sette anni fa con Marco De Rosa, Andrea Frosolini, Roberta Folliero (e altri due artisti poi andati via) qui ha fondato In Situ, spazio pioniere di arte nelle periferie. Christophe, 36 anni, nato e cresciuto nella perla di Montreux, vive convintamente a Torbella, che considera un territorio di straordinaria umanità, e gestisce lo spazio seguendo il modello militare che ha imparato nella sua terra: «Turni, compiti e progetti, tutto va fatto in maniera professionale per essere credibile con le istituzioni, i galleristi e i collezionisti». Dopo aver visitato la mostra che hanno in corso, camminando per il quartiere alla ricerca di un bar, cori lo sguardo basso per non inciampare tra buchi e dislivelli, colgo un elemento distonico tra la raffinata arte appena vista e la durezza di un quartiere con l'80% di case popolari e il 41% delle famiglie in povertà assoluta. Che rapporto avete con questo luogo? «Bello e forte, ma a livello personale. Torbella ispira la nostra produzione, ma noi non ispiriamo gli abitanti». Christophe è animato da un sano realismo e dunque non crede che un solo spazio artistico possa cambiare il volto del quartiere. Il suo sogno era ed è che altri cantieri di artisti aprano a Torbella facendone un distretto: non sta succedendo, ma intanto lui stesso è stato consulente per lo skate park per Cresco, il Cantiere di Rigenerazione Educativa, Scuola, Cultura, Occupazione per Tor Bella Monaca realizzato dalla fondazione Paolo Bulgari.
Quel che Cristophe si augura per Torbella, invece, succede già a San Lorenzo, a due passi dalla stazione centrale. Il quartiere ha una lunga tradizione artistica, ma sui giornali ci finisce di più per la movida, le risse, le feste notturne. Durante il giorno lo scenario cambia e riapre la San Lorenzo che tutti amiamo: il mercato, le botteghe di artigiani, il Bar Marani dove se non ti hanno mai visto ti trattano come se lì ci fossi nato. A due passi da dove è stata uccisa Desirée Mariottini, una ragazza di 16 anni, dietro un vecchio cancello, ci sono dei capannoni dismessi dove si producevano "Ombrelloni", come ricorda la vecchissima insegna. I giovani artisti che li hanno affittati hanno tenuto lo stesso nome. Tra di loro c'è Alessandro Calizza, nato e cresciuto nel quartiere, entusiasta di questa primavera romana: «Finalmente per la prima volta gli artisti non pensano di andarsene, ma anzi di ritornare». Per conoscersi e mettere in rete le realtà creative, Calizza ha creato anche SA.L.A.D., San Lorenzo Art District, una mappatura di atelier e gallerie, ben 60, in un blocco che si percorre camminando per appena 20 minuti. Dice Calizza: «SA.L.A.D. oltre all'arte, vuole mappare anche l'editoria, creare un distretto artistico e culturale che per qualità e quantità può influenzare le relazioni sociali». E qui, a San Lorenzo, non a caso è arrivata, per il suo esordio italiano, Soho House, l'esclusivo hotel club per artisti che ospita di continuo eventi e mostre: noi abbiamo visto le pitture astratte della giovanissima Giorgia Grassi circondati da una gioventù internazionale che non si vede da nessuna parte a Roma, neanche nel turistico centro. Per gli investitori della catena, San Lorenzo è la Shoreditch italiana, un conforto per chi crede che il quartiere possa fortificarsi crescendo sulla parte migliore di sé.
Alla fine del viaggio, torniamo dal nostro filosofo di riferimento, Giuseppe Armogida: «In questo momento una nuova forza artistica apre prospettive che potrebbero dare giovamento alla città intera, ma che necessitano di adeguati supporti dalle istituzioni e non solo. In attesa che accada, gli artisti hanno il compito di essere attivi e vigili nella propria precarietà, fuggire l'autocompiacimento e l'autocelebrazione. Essere sempre spazi emotivi esploratori di possibilità».