Recensioni / Esercizi di stile intorno a Rabelais

Tra i modi in cui si può descrivere il mutamento delle lingue ce ne sono due di complementari. Da un lato ci si può concentrare sui cambiamenti che avvengono senza che i singoli parlanti possano determinarli volontariamente, anzi spesso senza quasi che essi se ne accorgano nell'arco della loro vita. Da un altro si possono osservare le novità che sorgono da fatti puntuali come scintille, e generano istantaneamente nuovo materiale linguistico. Facciamo un esempio: nessuno potrebbe dire esattamente (né avrebbe senso chiedersi) chi e quando ha smesso di dire diece, come si diceva ai tempi di Dante, e ha cominciato a dire dieci, come si dice oggi. Tutti sanno invece che singole parole o locuzioni, alcune delle quali usiamo ancora, sono state inventate proprio da una persona ben precisa - da Dante, per esempio: da trasumanare a appulcrare, da stare freschi al fiero pasto - e sono perciò entrate nell'uso in un momento definito e per la deliberata azione di un singolo.
Dei mutamenti superindividuali e inconsapevoli si occupano gli studiosi di grammatica. Delle invenzioni di parole, gli studiosi di stilistica, se si intende lo stile come quello spazio di manovra all'interno del quale il singolo può modificare consapevolmente le proprie abitudini espressive, o scartare occasionalmente verso usi insoliti, inattesi, motivati dalla volontà di esprimere qualcosa di diverso da ciò che offrono gli inerti materiali disponibili.
Non c'è, a ben vedere, alcuna conflittualità tra le due prospettive, nel senso che normalmente esse finiscono per occuparsi di campi distinti. La fonetica, la morfologia e la sintassi delle lingue non sono, in generale, modificabili a piacere, mentre il lessico offre margini di libertà piuttosto vasti. Eppure, pervenire a una pacifica separazione a volte è difficile. Ancor più è stato problematico quando, ai primi del Novecento, il problema fu messo a fuoco da un giovane neo-laureato, Leo Spitzer che sarebbe diventato il fondatore della critica stilistica, un'intera e fiorente branca di studi che da più d'un secolo ormai tiene unite - o almeno ci prova, né sempre con successo - la linguistica e la critica letteraria, discipline solo apparentemente facili da conciliare.
Nella Vienna dei primi del Novecento, Spitzer - un giovane della buona borghesia ebraica della città - era stato iniziato da uno dei grandi maestri della grammatica storica delle lingue romanze, Wilhelm Meyer Lübke, a penetrare tutti i segreti della prima delle due prospettive di cui dicevamo sopra: quella per cui le lingue interessano come oggetto di studio scientifico e, in un certo senso, naturalistico, e non come palestre di giudizio estetico. Insoddisfatto da quella prospettiva, Spitzer cercò una via d'accesso linguistica alla fruizione estetica del testo letterario, seguendo suggestioni che gli venivano da un lato dalla stylistique in lingua francese (nel che l'aiutava la sua formazione di romanista) e da un altro dalla nascente teoria freudiana. A rendere fecondo l'incontro fu l'opera di François Rabelais, l'autore di Gargantua et Pantagruel: un gigante della letteratura francese del Cinquecento che come pochi altri in Europa aveva saputo torcere la lingua (e la realtà rappresentata), facendo delle sue opere un campo rutilante d'invenzione linguistica e di spericolata creatività lessicale. Alla «formazione delle parole come strumento stilistico» era dunque dedicata la tesi di laurea discussa, e poco dopo pubblicata, da Leo Spitzer nel 191o. La parte sull'invenzione delle parole in Rabelais ne occupa la corposa sezione centrale; ma ai suoi lati si dispone una trattazione generale su come, perché e quando si formino nuove parole, anche nel parlare quotidiano (e qui l'influsso del dottor Freud è evidente), e un denso capitolo dedicato al Balzac continuatore, nei Contes drolatiques, della strada aperta da Rabelais. Il libro d'esordio di Spitzer è stato ora per la prima volta tradotto da Lucia Assenzi, cui è spettato un lavoro tutt'altro che facile, e introdotto e curato nel suo complesso da Davide Colussi, uno dei più acuti studiosi di storia della cultura linguistica e filologica del secolo scorso.
Sono pagine - quelle di Spitzer, ma anche quelle di Colussi che le spiegano - che schiudono orizzonti amplissimi, e muovono a interrogarsi con angoscia sulle ragioni per cui l'una e l'altra prospettiva di cui parlavamo all'inizio si siano progressivamente risolte, nel Novecento europeo, in cliché spesso sclerotici e ripetitivi, con cui gli stanchi epigoni ancora in circolazione spesso non fanno onore alla grandezza problematica, ma indiscutibile, dei padri fondatori.