Recensioni / Sulla scena della vita variazioni e ripetizioni

«A teatro nessuno porta con sé i sensi più affinati della propria arte», poiché in quel luogo «manca la solitudine, e quel che è perfetto non tollera testimoni». L'invettiva di Nietzsche contro le scene dominate da ciarlatani e demagoghi risuona spesso nella cultura novecentesca. Negli scrittori, altrimenti abituati a controllare in solitaria autonomia il proprio processo creativo, è frequente il timore che i testi diventino meri pretesti nelle mani dei commedianti.
Anche in Thomas Bernhard si trova traccia di una simile diffidenza, sia nelle sfuriate di certi personaggi contro gli attori che «distruggono con il loro linguaggio da trogloditi» le opere letterarie, sia nelle proteste contro l'editore che, cedendo con disinvoltura i diritti di un suo testo, ne avrebbe permesso la più «brutale macellazione» sul palcoscenico. Ma di questa insofferenza Bernhard seppe fare un fecondo principio di poetica. A partire dagli anni Settanta affiancò alla sua narrativa una intensa produzione di testi teatrali, volgendosi con fiducia ad alcuni attori e al regista prediletto, Claus Peymann, e affermando che la sua scrittura drammatica era solo una premessa, una «Vorlage», per la loro arte recitativa. L'ostilità per le scene, che almeno nel caso di Nietzsche rivelava una chiara matrice protestante, veniva con lui a essere assorbita entro un gusto per la teatralità tipicamente austriaco.

Un testo datato 1984
È questa una delle riflessioni a cui si è condotti da Luigi Reitani, il «maggior germanista italiano della sua generazione» (così lo salutava Luca Crescenzi sulle pagine del «Manifesto» all'indomani della sua recente, improvvisa scomparsa). Conclusa l'edizione delle opere di Hòlderlin, Reitani ha infatti avuto modo di tornare a un autore che era stato al centro dei suoi interessi fin dagli esordi. Tra i frutti di questo lavoro spicca la nuova edizione di un testo che Bernhard compose ne11984, ispirato dalla recitazione di Else Ritter, Kirsten Dene e Gert Voss, attori della compagnia di Peymann. La trama è , come spesso in Bernhard, piuttosto scarna: un pranzo che vede riuniti nella casa di famiglia Ludwig, un sedicente filosofo appena uscito dal manicomio viennese dello Steinhof, e le sue sorelle. La vicenda è destinata a passare in secondo piano rispetto all'arte degli attori, come evidenziato dal titolo: Ritter, Dene, Voss (Quodlibet «Storie», pp. 149, € 14,50).
A tenere nelle mani il libro si fa ancora più intenso il dolore per la precoce scomparsa del curatore, poiché ovunque si riverbera la sua sensibilità critica. Anzitutto nello splendido lavoro traduttivo. Reitani non solo riesce a rendere con precisione alcuni dettagli dell'ambientazione viennese o alcune sfumature linguistiche rivelatrici del gioco di forze tra i personaggi. La traduzione riesce soprattutto a rispettare il dettato ritmico dell'originale. La scansione del testo in enunciati che si susseguono di riga in riga, assumendo l'aspetto di versi, è riprodotta con fedele incisività. E si ricrea così quello straordinario tessuto, fatto di ripetizioni e variazioni, che è essenziale all'intera opera di Bernhard e ad essa assicura un posto privilegiato nella cultura del Novecento, per la radicalità con cui l'attenzione ai valori ritmici della lingua, altrimenti caratteristica della poesia lirica, viene esercitata nella narrativa e nel teatro.
L'attento lavoro di traduzione è completato da un saggio che in una progressione interpretativa illumina i diversi piani del testo. Nelle mutevoli geometrie disegnate dai tre attori è in un primo momento riconoscibile una «tragedia familiare borghese» con atmosfere che ricordano Cechov, pur inclinando verso toni farseschi. Un secondo piano interpretativo si apre però non appena si presti attenzione ai molti rimandi a una prestigiosa tradizione culturale, in primo luogo a Ludwig Wittgenstein, a cui la figura del protagonista allude fin dal nome: diviene allora possibile cogliere l'eco di questioni centrali nella filosofia moderna. Ma anche ilbalenare diun simile contesto nell'opprimente interno viennese non esaurisce i significati di questa pièce.

Rimandi ingannevoli Sarebbe vano, avverte Reitani, cercare nella «filosofia di Wittgenstein o Schopenhauer la chiave» per comprendere questa partitura teatrale o le altre opere di Bernhard. I molti rimandi costituiscono una sorta di namedropping, che certo non è arbitrario, ma non è privo di tratti giocosi o addirittura ingannevoli. Proprio la presenza di tante e disparate allusioni alla tradizione culturale finisce per relativizzare il valore dei singoli riferimenti, e permette a Reitani di giungere a un ulteriore livello di lettura. Poiché se «tutto è già stato detto», non resta altro che «concepire la vita come rappresentazione». Il testo rivela così il dominio, pressoché assoluto, di una dimensione teatrale che è metafora dell'esistenza umana: «io detesto il teatro i non c'è nulla che mi faccia più schifo», dice il protagonista, ma anche la sua voce non è che una parte nel gran teatro del mondo.