Recensioni / Così pascolano gli eroi di Celati

Costumi d’Italia. Una carovana di rovinatimalinconici lungo le strade anonime e polverose della fertile provincia.

 Si chiama «Compagnia Extra» la nuova collana che Quodlibet - editore severo e ricercato, amato per i suoi ponderosi tomi di filosofia - ha affidato, a sorpresa, a due mattocchi come Ermanno Cavazzoni e Jean Talon. Il bianco delle loro copertine si smalta di fresco, si spruzza di colori infantili: già a prenderli in mano, questi libretti, mettono allegria. Dopo un classico non-libro di Federico Fellini (il mai realizzato Viaggio di G. Mastorna) e il divertentissimo zibaldino del filosofo da camera modenese Ugo Cornia (Sulle tristezze e i ragionamenti), è la volta dello sciamano della Compagnia, Gianni Celati.
Davvero un «extra», lui: che, toccata la soglia dei settant'anni, resta il più «irregolare» dei nostri scrittori. Intanto perché se ne sta altrove, in giro. Ed è forse proprio la distanza (messa ormai vent'anni fa, tra sé e un' Italia che non gli piace) a dargli un tono straniato e stupefatto. Erudito com'è di tutte le tradizioni occidentali, potrebbe fare il Grande Autore Internazionale: uno di quegli Scrittori Sheraton che non la smettono mai di ammonirci Dove Stiamo Andando. Invece eccolo qui, tirare fuori dal sacco questa manciata di raccontini che non vanno proprio da nessuna parte. E che, sotto una sigla ironicamente leopardiana, disegnano un'Italia piccola piccola, da pensioncina vistamare (altro che Sheraton!), di quelle dove però le tagliatelle le fanno come si deve.
Sostiene Celati che la migliore narrativa sia quella di provincia. E lavora a ricostruire il corpus di uno dei suoi maestri più grandi e dimenticati, Antonio Delfini. L'Italia di questi Costumi un po' lo ricorda, Delfini: se non nella scrittura nell'ambientazione, soprattutto nello sguardo. Sono personaggi strambi e senza prospettive, taciturni o strologanti a vuoto; si trascinano in una città innominata, gretta e bottegaia, che farebbe volentieri a meno di loro. Si chiamino Fregatti, Pucci o Zoffi, come il malinconico e lunare «eroe moderno» di nessun eroismo, sono tutti personaggi «fuori squadra», sempre a «pascolare» per strade anonime e polverose, accendendosi di voglie per una morona dalla scollatura generosa, accarezzando progetti uno più strampalato dell'altro, fantasticando altre vite o altri mondi come Cornelia: che sceglie di «darsi assente» come il Bartleby di Melville. Molti finiscono i loro giorni di «rovinati melanconici», inutili a tutti, in sanatorio o in manicomio. E chi racconta è uno di loro, figlio di un impiegato ribelle con una passionaccia per i libri, il «signor Celati ». S'inseguono, a tratti s'incontrano e subito si discostano, senza progetto e senza costrutto: «tutto un fluttuare di gente che andava e veniva» in una grande casualità motoria che scivola sulla calma superficie del nulla (giustamente Paolo Mauri, su Repubblica, ha richiamato il modello ariostesco).
Sono storie che vengono da lontano. Chi le narra esita, sbanda, ci si mostra nell'atto di farle «venire su da una palude di cose dimenticate, portando a galla posti e persone che devono esserci stati da qualche parte sotto il cielo». Difficile dire quando le abbia scritte. Per certi versi l'umanità che ci mostrano è quella bruegheliana, tarantolata dal sesso e altri «spasimi del corpo matto», di romanzi come La banda dei sospiri (negli Anni Settanta, quando Celati descriveva la famiglia «come uno spettacolo di varietà» e parlava di un «racconto comune» che «nasce dalla casualità e dalla ripetitività quotidiana»). Ma lo sfumare nella nebbia di questi sbandati come sonnambuli, il loro perdersi nell'«inconsistente», nel «niente di niente di tutti i pensieri che non corrispondono a niente, nel vuoto del tempo infinito dove tutto si perde nel niente», ricorda invece la maniera di libri più recenti, come Narratori delle pianure o Cinema naturale. Forse provengono dal lungo e misterioso «silenzio» osservato da Celati a cavallo dell'80: quando uno sbandato era lui per primo. Certo è che - allora come oggi - è lui il più bravo a chiedersi, a chiederci «se è proprio questa la vita. Oppure è tutto un errore, solo dei lampi, brividi, non si sa».