Tra i poeti contemporanei, Valerio Magrelli è certamente tra le
voci più riconoscibili. Non tanto
per il tono - quel suo atteggiamento sornione -, e per la musicalità dei suoi versi
- un allegretto che offre confidenza ma
per tenere le distanze. È la lingua a rendercelo immediatamente familiare. Un
dettato freddo, quasi distaccato, con un
vocabolario tra l'uso comune e quello
scientifico. Una poesia che simula la saggistica, addirittura filosofica, che già dal
suo esordio nel 1980, Ora serrata retinae, si evidenziava in versi come questi:
«Qui arrivano a coincidere/ l'oggetto
che cerco e la causa/ di questo ricercare./ Per me la ragione/ della scrittura/ è
sempre scrittura/ della ragione». E va
notato che il ritmo, con un enjambement, una volta isola il quinario «della
scrittura», un'altra volta il quinario «della ragione». Della scrittura e della ragione - che potrebbero anche essere presi
per il titolo di un trattato - sono i due
termini, i due fattori, potremmo chiamarli, della poesia di Magrelli. Ma di
che ragione, di che scrittura si tratta?
Il critico Arnaldo Colasanti, in un recente libro dedicato alla poesia di Magrelli, Polittico del «Sangue amaro»
(Quodlibet), ha parlato acutamente di
una logica paradossale. Occorre però
comprendere cosa significhi davvero
questo paradosso attraverso cui in Magrelli la ragione si fonda. Una poesia della raccolta appena pubblicata, Exfanzia
(Einaudi, pagg. 126, euro 11 e 50), potrebbe aiutarci: «Mi sento così impaurito e solo al mondo/ che perdo gli oggetti, uno a uno./ Per farmi ritrovare da
qualcuno?/ O alleggerisco il carico/ per
non andare a fondo?». Ecco, io credo
che Valerio Magrelli, attraverso la ragione, cerchi di costruire un'architettura
che gli permetta di difendersi dai rischi
di quel paradosso. Di fatto, non fa che
razionalizzare una paura per non affondare.
Exfanzia, titolo che allude a un'uscita
dalla vita, o, per meglio dire, da uno stato nascente del vivere, titolo che vuole
creare, per contrasto, l'immagine di un
ingresso nella vecchiaia, esteriorizza
più che in altre raccolte questa paura: la
manifesta. Ma il modo che Magrelli ha
di manifestare la paura non è nell'affronto, nella presa di petto, nell'accettare che la paura possa
in una certa misura anche vincere, facendoci
conoscere il baratro. Al
contrario la paura è manifesta perché esteriorizzata,
portata in superficie, resa essa stessa materia per la ragione, «Pensavo di soffrire/ come
un criceto ingabbia./ Soffro,/ invece,/ perché sono la gabbia».
come se con gli anni la poesia
di Magrelli avesse creato uri intercapedine, uno spazio vuoto tra la ragione e la necessità che la sottende, che
sottende il moto stesso della sua scrittura. Quello spazio somiglia alle «case che
uno lascia: vuote voragini», che sono
«oscene,/ anzi, ecco,/ oscene, e osceni
noi/ a guardarle/ come si guarda un genitore nudo», perché le si è denudate.
Allora, la forza di questa poesia è proprio nel suo tenersi in bilico sul precipizio, nel suo tenere lontano il pericolo, nel non finirci mai davvero
dentro; nella sua capacità di costruire un riparo, o un rifugio in
cui si accumulano o si riciclano oggetti d'uso quotidiano
(oggetti che l'orrore della
realtà allontanano e che allontanano anche lo spavento della fine del tempo), per non svelarsi mai
veramente, così da rivivere ogni voltala medesima tensione, lo stesso allarme
- qualcosa, insomma, che riaccenda
l'impulso stesso di vivere.