Recensioni / L'errore di Wittgenstein, filosofo cieco alla storia

Alla fine del secolo scorso, l'idea che la storia fosse finita fu salutata con fiducia da molti, nella speranza che la scomparsa dell'Unione sovietica e il trionfo del capitalismo sancissero l'inizio di una fase di stabilità e armonia in cui l'umanità avrebbe trovato il suo compimento definitivo. Negli anni a venire, quell'idea si è così radicata da diventare di senso comune: il nostro è il migliore dei mondi possibili, mentre il solo pensare a un cambiamento dell'organizzazione politica e istituzionale appare, se va bene, come un anacronismo, se va male, come un rifiuto della realtà.
Logica e Tumulti. Wittgenstein filosofo della storia (Quodlibet, pp. 175, € 20,00) di Marco Mazzeo si oppone con fermezza a tutto ciò. Col pretesto di uno studio sul più grande filosofo del Novecento, l'autore combatte in difesa della dimensione storica dell'esperienza umana.
Per prima cosa bisogna fugare un equivoco: storia non è il mero scorrere del tempo, il costante succedersi degli eventi. Non va dunque confusa con la filogenesi, né con la deriva dei continenti. È invece «l'insieme delle trasformazioni istituzionali e produttive grazie alle quali gli esseri umani riescono a salvare la pelle. La storia indica, in primo luogo, il modo nel quale i sapiens producono le condizioni di possibilità della propria vita». Indica quei cambiamenti «imprevedibili» — perché non riconducibili a un repertorio di istinti — e «necessari», senza i quali non riusciremmo a produrre i mezzi della nostra sussistenza. Mentre il tempo dei fenomeni naturali è continuo, storia è sinonimo di discontinuità e fa rima con improvvisi tumulti repressi nel sangue o con una nuova tecnologia che sconvolge l'organizzazione della vita.
Tuttavia, in questa operazione di salvataggio, Wittgenstein non è un alleato. La diagnosi del libro è netta: il filosofo è cieco alla storia. Con un apparato filologico che lascia poco spazio a dubbi (vengono classificati tutti i termini riconducibili alla famiglia della «Geschichte» presenti nel lascito testamentario), Mazzeo dimostra che l'autore delle Ricerche filosofiche prospetta un'«antropologia senza storia»: offre istantanee dirompenti, ma non vede la differenza tra il tempo umano e i mutamenti geologici. In questo è un degno «allievo di Spengler», una tra le sue fonti più importanti. Nel secondo capitolo del libro viene soppesato il debito di Wittgenstein con l'autore del Tramonto dell'Occidente il quale, sulla scorta di Goethe, paragona le epoche storiche alle fasi di «sviluppo» di organismi viventi come le piante. E così una rivoluzione può diventare un'escrescenza da tagliare, un governo autoritario la piena maturazione di una cultura. Nell'ipotesi interpretativa di Mazzeo, la discussa amicizia di Wittgenstein con Sraffa (a sua volta amico di Gramsci) sarebbe giunta al capolinea proprio in virtù di questa ritrosia nei confronti della storia.
Il primo capitolo è dedicato a una ricostruzione del rapporto tra il logico e l'economista, il quale, oltre a ritenere «insopportabile» che l'amico abbia in Spengler un «punto di riferimento», nei suoi appunti denuncia «in modo esplicito» la «scarsa presenza della dimensione storica» nelle riflessioni dell'interlocutore. Wittgenstein può però venirci in soccorso quando meno ce lo si aspetterebbe, cioè quando si occupa di matematica. Nelle sue annotazioni sul calcolo e sui teoremi trapelauna nozione, quella distorianaturale, che può essere promettente approfondire. Nel vertice teorico del volume, Mazzeo propone infatti «una riflessione circa l'intreccio tra natura e storia umana, a prescindere dalla filologia wittgensteiniana». La sfida, quanto mai attuale, è difendere la storia senza opporla alla biologia: le due sfere vanno pensate insieme, gemelle siamesi che non stanno l'una senza l'altra, motivo per cui, finché esiste Homo sapiens, si darà il problema di come organizzare la vita sul pianeta. Il che vuol dire anche rimettere in discussione l'organizzazione politica ed economica presente.