L'epigrafe incisa sulla lapide
sepolcrale di Leopardi recita: «al conte Giacomo Leopardi recanatese filologo
ammirato fuori d'Italia /
scrittore di filosofia e di poesie altissimo / da paragonare solamente coi greci». Filologo, filosofo e poeta (tre qualifiche che noi
contemporanei ricordiamo di solito in ordine inverso, per importanza), ma anche traduttore, erudito e autore in prosa, dalle Operette morali
allo Zibaldone , per stare solo agli
esempi canonici: il primo pensatore moderno della nostra storia letteraria è stato (almeno) tutto questo. Ma cosa accadrebbe a ragionare per differenza? Quali dati emergerebbero se provassimo a chiederci: chi non è stato Leopardi?
Scorrendo il volume, a cura di Franco D'Intino, Davide Pettinicchio e Lucia Abate, che
raccoglie integralmente per la prima volta i
suoi Disegni letterari (Quodlibet, pp. 277, €
20,00), Leopardi rivela un volto che va ben al
di là di quello a cui siamo stati abituati: nei
quasi duecento titoli che corrispondono ad
altrettante opere progettate e mai realizzate, l'ispirazione del «poeta dei Canti» convive con quella di un potenziale romanziere,
di un trattatista, di un teorico della lingua e
della letteratura... Più che domandarsi chi
(o cosa) non è stato questo grande autore moderno, ha allora senso chiedersi chi (o cosa)
non ha fatto in tempo a essere.
Il libro è stato concepito in seno al Laboratorio Leopardi dell'Università di Roma La Sapienza ed è nato grazie alla collaborazione
dei curatori e di Novella Bellucci; mentre a
D'Intino si devono l'Introduzione e il commento ai Disegni, Pettinicchio ha curato la
parte filologica, comprensiva di una Nota ai
testi e, per ogni progetto leopardiano raccolto, le sezioni Edizioni e datazione e ll manoscritto. È proprio sul riesame delle carte che si
poggia questo meticoloso lavoro, e la puntualità della descrizione dei materiali, spesso «minuscoli fogliettini» gelosamente custoditi da Leopardi, ne è una costante e una
caratteristica peculiare. Non solo: tra le molte qualità del volume spicca l'abilità dei commentatori a non perdere mai di vista il continuo intrecciarsi di questi progetti con le altre opere leopardiane, così che a emergere è
davvero l'immagine di un autore in continua evoluzione, di «ardimento visionario»
nella propria progettualità creativa.
È il caso, per esempio, del Disegno VII, Argomento di un libro politico, dove al primo punto del «protoindice» Leopardi annota: «Della
falsa aspettativa di alcuni intorno ai libri di
Cic. della repubblica». Un riferimento, questo, che non potrà non ricordare al lettore la
canzone Ad Angelo Mai, composta proprio in
occasione del ritrovamento di parte dell'opera ciceroniana e uscita come «per miracolo»
dalla penna del poeta (così lo stesso Leopardi, in una lettera a Pietro Giordani de11820).
Ancora, il secondo punto dello stesso disegno, «Dello scopo degli antichi (il bello e non
l'utile nè il vero)», ricorda subito un tema-refrain nella riflessione leopardiana svolto anzitutto nello Zibaldone, opera a cui D'Intino
rimanda puntualmente, arricchendo il commento di rinvii alla critica recente.
Tuttavia, i Disegni
hanno soprattutto la capacità di rinnovare l'immagine di Leopardi
rivelando alcune sue aspirazioni inaspettate, forse, ma che proprio per questo ce lo restituiscono, oggi più di ieri, nella veste di un
intellettuale incredibilmente poliedrico e
definitivamente moderno. Ad esempio, nel secondo dei Sei disegni recanatesi
(V), lo scopriamo progettare un
«romanzo istorico (...) contenente la storia di qualche nazione prima grande poi depressa», che
Leopardi vorrebbe, nella finzione, «cavato da manoscritti antichi, e tradotto dal greco»: ecco un
escanwtage, allora, che di nuovo
fa dialogare gli abbozzi con le
opere compiute, in particolare
con il preambolo al Frammento
aprocrifo di Stratone di Lampsaco,
nelle Operette, in cui l'autore dichiara di aver tratto il testo da un
codice dimenticato.
I progetti in prosa guadagnano tra l'altro una netta prevalenza su quelli in versi, al punto che
ci si potrebbe chiedere quanto la
percezione dei posteri sarebbe
mutata, nei confronti di Leopardi, se almeno una parte delle opere immaginate fosse stata portata a compimento. Non è soltanto
la varietà dei generi a testimoniare la «partita infinita» di Leopardi
con la propria ispirazione (si va
dai saggi agli scritti di erudizione, ai commenti, alle enciclopedie, ai dizionari): anche l'ampio
ventaglio tematico dei Disegni illumina zone della creatività leopardiana rimaste in ombra. È il
tema della «vittima femminile» a
suggerire ad esempio a Leopardi
un altro intreccio romanzesco,
in cui una monaca, «costretta a
prendere l'abito, e "disperata",
(...) si determina per "gradi" al
suicidio». Insomma «colpisce»,
chiosa D'Intino mentre ripercorre questo soggetto, che Leopardi
abbia immaginato di esercitarsi
su «un tipico tema "gotico" sette-ottocentesco, che stava trovando la sua più notevole incarnazione, proprio in quegli anni,
nell'opera manzoniana».
Questi progetti irrealizzati,
modernamente caratterizzati
dalle stigmate del non-finito, restituiscono insomma l' «insospettabile forza inaugurante a un
poeta generalmente "derubato
della sua centrifuga, e spesso ardita, non pacificata impetuosità"», come suggeriscono i curatori sviluppando un'intuizione di
Christian Genetelli. La frammentarietà dei Disegni
non va a interdire né ostacola la loro enorme
rilevanza. Di fronte alla sfida del
tempo («leggo e scrivo e fo tanti
disegni, che a voler colorire e terminare quei soli che ho, ... fo
conto che non mi basterebbero
quattro vite», scriveva ancora
Leopardi a Giordani, nel '21)
quelle opere si rivelano destinate a rimanere degli abbozzi. Ma,
come sanno i contemporanei e
come scriveva Franz Kafka a
Kurt Wolff in una lettera del 3
aprile 1913, anche se «un frammento (...) resterà tale, questo
futuro è quel che gli conferisce la
sua maggior completezza».