Chi si occupa di poesia del Novecento ha una certa familiarità col fatto che all’interno del panorama
poetico italiano dagli anni Cinquanta e Sessanta in poi sia possibile osservare in filigrana i segni di
una storia letteraria alternativa o – in ogni caso – collaterale a quella che si è venuta consolidando
via via nella manualistica.
L’opera di Moliterni, tuttavia, non intende affatto privilegiare un canone novecentesco diverso da
quello consolidato quanto, piuttosto, riallacciare i fili che congiungono alcune prove poetiche non
ancora pienamente stabilizzate all’interno della storiografia. E questi fili le tengono sia insieme fra
loro (pur nelle ovvie differenze), sia le riaccostano a quel filone lirico (variamente declinato) che
costituisce il nocciolo della tradizione letteraria italiana.
In questo movimento di andirivieni fra traditio e renovatio è, allora, possibile ripercorrere tutta una
serie di esperienze letterarie che – come un fiume carsico – seguono sotterraneamente le sorti di
quella che a posteriori viene considerata la tradizione maggiore del Novecento italiano.
Si tratta, quindi, di un’opera non tanto di critica letteraria tout court, quanto di una penetrante
panoramica storiografica di un Novecento più appartato ma che, in realtà, è stato protagonista di
una temperie culturale e storica al pari di quello più conosciuto e storicizzato.
Del poeta Girolamo Comi e della sua strenua difesa dell’assolutezza della forma lirica viene
esaltata, ad esempio, la voluta contrapposizione alla «secolarizzazione e al declino del sacro» cui si
assiste nel secolo breve, mentre di Bodini si mette in luce la viva presenza all’interno di un dibattito
con Luciano Anceschi, nume tutelare e padre putativo dell’onda lunga delle neoavanguardie
novecentesche. Una ricerca intorno alle forme della poesia che li vede accostati dalla comune
fedeltà a un Barocco declinato in forme diverse: surrealista e portatore di una tensione militante
quello del primo, polimorfo e animato da una spinta ermeneutica quello del secondo. In ogni caso,
entrambi gli intellettuali se ne servono come una speciale attitudine a cavalcare la crisi del
dopoguerra e a far emergere le ferite profonde della modernità. I palcoscenici di questo dibattito
sono, in primo luogo le riviste, da quelle più conosciute a quelle che hanno subito sorti meno
fortunate: «Il Verri», «Officina», «Questo e altro», «Malebolge», «Marcatré», «L’Esperienza
poetica» (diretta, quest’ultima, dallo stesso Bodini).
Sempre le riviste sono anche al centro del saggio sulla poesia giovanile di Roberto Roversi. Anche
in questo caso, Moliterni si sofferma su un punto di svolta, un crocevia all’interno di un percorso
espressivo di chi sta per lasciare strade già battute ma ancora non si è avventurato verso il mare
ignoto dello sperimentalismo. Un poetare, quindi, nel quale «si attestano ancora certi aulicismi e
slogature del discorso combinati alle deviazioni della norma del linguaggio comune» (p. 72).
Ancora una volta si tratta, per l’autore, di considerare quanto di residuamente novecentesco e
quanto di nuovo e originale convivano in una serie di opere giovanili che proprio nella loro
incompiutezza stilistica possono, tuttavia, illuminare la produzione più matura del poeta bolognese:
«è una rassegna utile per collegare gli esordi poetici di Roversi a una temperie specifica che si
impone nel panorama lirico in Italia proprio nel periodo degli anni Quaranta e i primi anni
Cinquanta, discostandosi in modi e forme diversificate dalle poetiche più invalse del postermetismo e del neorealismo» (p. 70).
Inoltre, già da queste prime prove è possibile ricostruire non solo una serie di parentele poetiche di
Roversi (Saba, Penna, Betocchi, Caproni, Zanzotto) ma anche il clima nel quale si svolgeva il
dibattito culturale del tempo e i modi della ricezione di un giovane autore da parte di voci già
integrate nel contesto della cultura italiana, Fortini e Sciascia su tutte.
È proprio all’intersezione di queste strade differenti che l’autore preferisce soffermarsi nei dodici
saggi che compongono la raccolta, tutti già pubblicati su rivista o in libri collettanei. Ma la non
organicità dell’opera, in questo caso, non ne mina la portata conoscitiva, anzi la accentua in quanto
riesce nel non facile compito di disegnare il profilarsi di varie ipotesi di studio senza darne mai per
scontato il risultato. Anche nel saggio più compiuto e unitario, quello che concerne la persistenza di
modelli e calchi danteschi nella poesia di Vittorio Sereni, diremmo che l’autore – più che
concentrarsi su un vero e proprio esercizio di filologia testuale – va alla ricerca delle tracce
molteplici che mostrano il convergere in Sereni, da una parte di ciò che resta del «Grande Stile della
lirica moderna e premoderna», dall’altra di «dissonanze tra registri», «verticalizzazioni visionarie»
e «lievitazione dello stile lirico», senza però che l’autore venga mai meno «alla disciplina della
spoliazione e dell’essenzialità» (p. 100). Il poeta di Luino sarebbe così il fautore di uno stile che,
pur rinunciando a ogni residuo di matrice orfica e pur essendo attratto dalla prosa del mondo, non
taglia i ponti con un dettato alto e solidamente radicato nella tradizione. E, nondimeno, il soggetto
lirico in Sereni se da un lato non può non essere «dimidiato e disforico», sempre esiliato e in ritardo,
sempre fuori squadro, dall’altro non smette di vagheggiare una nuova purezza, un nuovo canto, una
nuova armonia di forme.
Anche quando scandisce le tappe dei percorsi poetici di Benzoni, De Angelis, Viviani, Testa,
Inglese, addentrandosi sul sentiero impervio della contemporaneità letteraria, Moliterni,
più che lanciarsi verso un’interpretazione puntuale dei singoli testi poetici, mira a restituire le
ragioni di un operare poetico che deve fare i conti con la resistenza della realtà alla poesia. L’ormai
avanzato processo di mercificazione della cultura e l’inattualità di qualsiasi concessione a quel nonnecessario che è la poesia rendono, infatti, ogni tentativo di restituirle una qualsivoglia centralità
all’interno del panorama culturale (per non dire sociale) se non vano, quanto meno isolato e
decisamente marginale. All’interno di quest’inarrestabile atomizzazione di ogni pratica poetica,
l’autore cerca tuttavia di ricostruire un orizzonte comune all’interno del quale le voci degli anni
ultimi del secolo possano aderire a una sorta di resistenza disarmata e fuori tempo massimo.
Questo terreno comune, questo collante al di fuori delle linee e dei movimenti, lontano dai gruppi,
dai consorzi e dai manifesti programmatici viene individuato nella «spiccata attitudine riflessiva,
una tensione alla “poesia-pensiero” che, nel rispetto per la sua marcata caratterizzazione in senso
individuale, accompagna e arricchisce i percorsi degli autori contemporanei» (p. 146). E in ciò –
sostiene Moliterni – questi autori mantengono viva una relazione con la generazione di mezzo (da
Montale a Sereni) proprio in quanto – constatata l’irricevibilità di ogni spinta avanguardistica o
utopistica – non possono fare altro che inserirsi in quella tradizione di riflessione sul linguaggio e
sulla relazione tra individuale e collettivo.
Pur riconoscendo il merito all’autore di cimentarsi nella rischiosa sistematizzazione di una materia
ancora calda e sfuggente per mancanza di distanza storica, tuttavia in questi saggi conclusivi
l’indugiare nella ricerca di filiazioni e fratellanze (emblematico il caso di Benzoni/Sereni) rischia di
sembrare un velo di Maya volto a far schermo dell’epigonismo e della mancanza di una vera voce
propria di questi poeti del contemporaneo.
È pur vero che in uno di questi interventi viene evocata l’autorità di Bachtin quando parla di una
«vergogna lirica di se stessi, la vergogna del pathos lirico, la vergogna della sincerità lirica» (p.
174). Ma tale vergogna è così presente negli autori più disparati del secondo Novecento italiano e
nelle forme più molteplici (pensiamo solo all’espressionismo zanzottiano o alla frantumazione
dell’io – lirico e non – di una Rosselli), che forse sarebbe stato utile un surplus di indagine. Non
fosse altro che per allontanare l’idea postmodernista secondo cui, da un certo momento in poi del Novecento, non sia stata possibile se non una poesia (e più in generale una letteratura) in falsetto e
nichilisticamente rassegnata a elaborare una sorta di infinito requiem sopra le proprie stesse spoglie.