Strappata al film di Nanni Moretti Caro Diario, questa frase è stata scelta da Piero Ostilio Rossi per un saggio sulla periferia di Roma scritto nel 2009, riproposto l’anno scorso in una lezione online, e ora raccolto insieme e ad altri scritti su Roma pubblicati tra il 1996 e il 2021 nel suo libro La città racconta le sue storie. Architettura, paesaggi e politiche urbane. Roma 1970-2020
(Quodlibet DiAP Print/Teorie, 2021). Seguendo una spericolata parabola che porta dall’idea del “mare come destino i Roma” alla prospettiva della Roma policentrica del futuro, questa frase non nasconde un interessamento in fondo ottimista, sia pur carico di ironia, sul farsi e disfarsi della nostra città, evitando però ogni ingenuità e descrivendo molto bene le situazioni spesso drammatiche e talvolta tragiche della sua vicenda nella difficile prospettiva di diventare capitale di un nuovo Stato, attraverso situazioni politiche ed economiche spesso disastrose. Scegliere la periferia della città come luogo delle differenze, delle trasformazioni, della dispersione, è un tentativo molto ben congegnato per tracciare una storia urbana che diventa una sperimentazione continua, ricca di sterzate tra modelli talvolta degradati e talaltra fortemente anticipatori, senza riuscire ancora a trovare un modello complessivo di riferimento.
Non è possibile riassumere i tracciati contraddittori che questo libro descrive, ma si possono scegliere due punti di osservazione che consentono di sintetizzare il lavoro analitico e critico insieme che Rossi propone e che emergono vividamente da due saggi. Quello intermedio, appunto: Spinaceto? Pensavo peggio…Il paesaggio urbano delle periferie dal dopoguerra ad oggi . E quello conclusivo: Roma 2025, Appunti della città che verrà (2021).
Nel primo Rossi descrive la trasformazione delle aree residenziali della città dal 1943 al nuovo millennio seguendo i vari tentativi dello IACP, dall’INCIS e delle amministrazioni che si sono via via succedute alla guida di Roma, raccordando i cambiamenti politici e sociali con l’esigenza di nuove abitazioni. Dal panorama delle baracche di campo Parioli, alle borgate di Primavalle, Trullo e Tufello, ai quartieri scaturito dalla legge Fanfani fino alla svolta dovuta alla legge 167, dove i nuovi insediamenti sono impostati sulla correlazione tra edifici e strade urbane. Fino ai Peep, i Piani di Zona di Corviale, Vigne Nove e Laurentino, che Rossi considera i nuovi “condensatori sociali, in grado di porsi come poli urbani dotati di una forte caratterizzazione formale”, contraltari della città abusiva, definita da Alberto Clementi e Francesco Perego “la metropoli spontanea”, e da Rossi osservata senza troppa polemica severità. La chiave interpretativa è che Roma sia diventata “una città composta da molta città”, idea opportunamente teorizzata nel nuovo Piano Regolatore del 2008, con la proposta di 18 nuove centralità.
Nel secondo si parla di una ricerca decollata nel 2015 all’epoca del Sindaco Ignazio Marino e dell’Assessore alla Trasformazione urbana Giovanni Caudo, alla quale Rossi ha collaborato. Un metodo singolare e volutamente astratto, che ritaglia il territorio romano – Roma, il suo hinterland “vuoto” fino al mare (si torna così al primo capitolo del libro) – in 25 quadrati di km 10×10, per un totale di 2.500 kmq “con l’obiettivo di intercettare una Roma esterna di dimensioni molto più ampie di quelle del territorio di Roma Capitale”, così da poter sintetizzare meglio la ricchezza e le potenzialità urbane per ora virtuali. L’obiettivo è quello d’individuare i contenuti della Roma-metropoli. Un metodo che riprende il filo spezzato dei metaprogetti quaroniani, della visionarietà dello Studio Asse, o del modello VEMA di Franco Purini, utile se non altro perché mette definitivamente in discussione il concetto di periferia che tanto ha pesato sulla storia di Roma, assumendo invece il paesaggio come protagonista dei modelli formali futuribili.
La verifica è tutta da fare, ma la dimensione del discorso è quella giusta.