Annotata nello Zibaldone leopardiano, la lapidaria sentenza sulle grandi città moderne
che «non hanno più carattere proprio, si
rassomigliano tutte fra loro» diverrà quasi
scandalosa nel corso del secolo successivo,
così ossessionato dal genius loci e dalla particolarità dei luoghi «intrasportabili», o meglio intraducibili, decantati da tutti gli architetti, specie italiani. Eppure oggi la forma delle
metropoli, e ancor più delle megalopoli, dimostra
come le città mosse da un modello urbanistico di
speculazione edilizia poggiato sul lais se z faire raggiungano un alto livello di omologazione, da Detroit a Dubai. Rem Koolhaas è però riuscito a superare il modello del Non-Luogo coniato da Marc Augé
nella metà degli anni ottanta. Più o meno nello stesso periodo, infatti, egli aveva concepito un libro dedicato alla città contemporanea, una sorta di disegno letterario, che già allora lasciava intravedere
un orizzonte di caotica palingenesi.
Il volume Testi sulla (non più) città (a cura di Manuel Orazi, Quodlibet, pp. 240, € 18,00) riesuma quel
progetto raccogliendo scritti sparsi, di difficile reperibilità, quasi tutti inediti in italiano. Nel lungo e dotto
saggio introduttivo il curatore ricostruisce le tappe di
questo libro, riportando una dichiarazione dell'architetto (1995) proprio in merito alla genesi di questa raccolta teorica: «Sto scrivendo un libro che analizza
Atlanta, la struttura delle nuove città parigine e Singapore. Gli architetti, i sistemi politici, le culture - l'America, l'Europa, l'Asia- sono completamente diversi eppure approdano a configurazioni relativamente simili, fatto di cui tutti si lamentano. Vorrei comprendere
il fenomeno e le ragioni di queste similitudini».
È così che, scorrendo l'indice, si comprende come
Koolhaas, partendo dal memorabile Delirious New York
(1978, Electa 2001), un libro di cui egli stesso non ama
parlare, si sposti dal centro verso le periferie, sempre
più aliene dal concetto di città, almeno per come queste sono state studiate e definite dall'urbanistica classica. Ecco allora che trova un primo caso ad Atlanta,
quindi nei concorsi di rinnovamento urbano nell'era
mitterrandiana, infine a Singapore, per poi continuare dopo il 2000, anno in cui ha vinto il Pritzker Prize,
verso le città cinesi del delta del Fiume delle perle, poi
verso l'Africa (Lagos) e la penisola arabica (Dubai).
Come mai Koolhaas sceglie sempre città poco «estetiche», con scarsissima letteratura architettonica alle
spalle? Deve aver influito la sua formazione di giornalista: attirato più dai problemi che dalla stucchevolezza
del «bello» su cui si soffermano troppi storici dell'architettura. In quelle nuove conurbazioni si gioca il destino del funzionamento della città nel nuovo millennio, un destino rispetto a cui la città europea in generale, e l'italiana in particolare, ha un ruolo del tutto marginale, anzi mistificatorio: «La città non esiste più. Poiché l'idea di città è stata stravolta e ampliata come mai
nel passato, ogni tipo di insistenza su una sua condizione primigenia (in termini visivi, normativi, costruttivi) ha
come esito inevitabile, complice la nostalgia, quello dell'«irrilevanza», recita l'impietosa citazione che apre il libro.
Lo stile letterario diretto, tra
il sincopato e il tagliente, ricco
di brevi digressioni e ancor più
di similitudini, non è facile da
inquadrare se non nell'alveo
della letteratura postmoderna, mentre non si può certo definire così l'architettura di
OMA. Si penserebbe a una scissione della personalità nel maestro olandese se non fosse che
l'architettura è opera massimamente collegiale, ma, avvertiva Enzo Melandri, «ogni opera
è un'opera collettiva», dunque
anche quella letteraria. Orazi
definisce lo stile koolhaasiano
«cinismo lirico». Eccone un
esempio: «La città che osserviamo oggi non è più costruita della sostanza che è necessaria alla nostra sopravvivenza, ma di
contenuti di fatto superflui,
per i quali possono essere applicate differenti metafore.
Non sorprende che al piano
terra di un centro direzionale
venga utilizzato il linguaggio
del resort - che ormai dà forma allo spazio pubblico - piuttosto che quello dello scambio
delle idee. Per me la parola resort è molto importante perché il nostro modello di vita
nella città si sta concettualmente spostando dal lavoro
all'ozio e di conseguenza l'estetica della città si sta spostando da iniziative più serie alle
condizioni del resort».
Forse è proprio per questo
passaggio epocale, descritto
senza mezzi termini, che stentiamo a comprendere le nuove
forme che la città oggi assume.
Nei testi più recenti Koolhaas è
ricorso alla forma breve del
Denkbild, da un lato per fissare
alcune idee, dall'altro per giocare con un'altra identità, quella letteraria, che, fin dai suoi
esordi di giornalista e sceneggiatore cinematografico, è la
sua prerogativa più intima e
gelosamente coltivata: «l'architetto è colui che determina
le sceneggiature della vita quotidiana». I ritratti di città, i Denkbilder, sono dunque un modo
per infrangere i limiti tra giornalismo, filosofia, cinema,
pensiero architettonico - il
modello, Strada a senso unico e
Immagini di città di Walter Benjamin. Un'attività liberatoria
per l'architetto olandese, che
si scrolla di dosso così tutti i
vincoli burocratici, economici, tecnici che la professione
gli impone.
Nei testi selezionati spiccano quelli arricchiti da ricordi
personali sull'Architectural
Association e sul suo maestro
Oswald Mathias Ungers, nonché il pezzo dedicato alla smart
city, programma a lungo discusso e sovvenzionato
dall'EU, su cui il sarcasmo koolhaasiano è impietoso: «i tradizionali valori europei di libertà, fraternità e uguaglianza sono stati sostituiti nel XXI secolo da comfort, sicurezza e sostenibilità». E ancora l'insolito testo sulla campagna, frutto della ricerca recente sul più esteso
e meno conosciuto dei territori, dove oggi migrano i grandi
centri logistici e le enormi coltivazioni artificiali: «Alla campagna viene imposto un ordine
ipercartesiano, cosa che fa sì
che la poeticità e l'arbitrarietà
oggi siano ormai esclusiva delle città... La nostra attuale ossessione per la sola città è totalmente irresponsabile perché
resta impossibile capire la città
senza capire la campagna...».