Quale sia la tesi di Geroni è chiaro già dall’esergo, dove è riportato un passo piuttosto singolare
tratto dal Mestiere di vivere: «L’unica gioia al mondo è cominciare. È bello vivere perché vivere è
cominciare, sempre, ad ogni istante». Queste sole poche righe permettono di inquadrare l’intero
volume Cesare Pavese controcorrente, edito da Quodlibet nel 2020, che, come dichiarato nella
premessa, indaga il «concetto di “inizio”, declinato nella duplice accezione di “origine
dell’esistenza” e di “incipit di un’opera letteraria”» (p. 11).
Il libro, suddiviso in quattro capitoli, ripercorre a ritroso la produzione pavesiana. Ogni parte,
corredata di datazione, è dedicata a un’opera e, consequenzialmente, a uno snodo fondamentale
della carriera letteraria e della vita di Pavese. Il primo capitolo prende le mosse dal ’47, anno della
pubblicazione dei Dialoghi con Leucò, l’opera di cui Pavese – non ne ha mai fatto mistero – era più
soddisfatto; figura centrale di questo momento artistico è Orfeo, protagonista del dialoghetto
L’inconsolabile. Il secondo capitolo è dedicato a una lunga trattazione di Paesi tuoi, esordio
narrativo di Pavese nel ’41; segue un terzo capitolo su Lavorare stanca, che raccoglie alcune
riflessioni sul momento di transizione dalla poesia alla prosa, che Geroni colloca nel ’35, l’anno in
cui l’autore fu confinato a Brancaleone. L’ultima parte guarda ancora più indietro, alla traduzione di
Moby Dick di Herman Melville, vera e propria origine dell’interesse pavesiano per il mito secondo
lo studioso.
Il saggio, dunque, guarda alla quasi totalità dell’opera di Pavese mettendone a fuoco la complessità
che deriva dalle riprese di temi e motivi, e dai continui rimandi interni; in altre parole, ne individua
la progettualità, e per questo Geroni può effettivamente ripercorrerne la produzione andando
“controcorrente”, procedendo cioè a ritroso dal ’47 agli esordi dello scrittore.
L’assunto di partenza muove dalla considerazione di una parte consistente della critica secondo cui
La luna e i falò va ritenuta l’opera in cui la sua poetica si esprime al meglio. Geroni condivide
questa interpretazione, precisando però che «La luna e i falò è il testo in cui si esprimono al meglio
tutti quegli elementi che erano già presenti, nel suo pensiero, sin dall’inizio» (p. 19). Tesi assai
condivisibile dal momento che nelle opere di Pavese si possono individuare elementi ricorrenti,
quasi ossessivi, frutto dello studio continuo intorno a un unico grande tema, ovvero il mito, già
intrinsecamente legato al concetto di origine e inizio nelle due accezioni sopracitate.
Le date che accompagnano ogni capitolo permettono di orientarsi lungo un cammino niente affatto
lineare, ma soprattutto forniscono dei punti di riferimento temporali per inquadrare le tappe del
pensiero di Pavese proprio in virtù del loro ripresentarsi ciclicamente.
Un fattore cruciale che Geroni non manca di sottolineare è l’influenza esercitata dalla psicanalisi e
dagli studi antropologici, veri e propri «strumenti d’elezione adoperati da Pavese per sondare il mito
come paradigma di una dimensione originaria dell’esperienza» (p. 17); a ciò si aggiunge una lettura
attenta, da parte dello scrittore, della Scienza Nuova
di Giambattista Vico, «il “primo” filosofo degli
inizi» (p. 15).
È inevitabile per lo studioso guardare al mito come alla stella polare del percorso tracciato nel
saggio, anche perché, volendo assecondare l’opinione di Pavese stesso, la poetica del mito si
realizza pienamente con i Dialoghi . Ma questo, come è chiaro, non è altro che l’inizio. Il mito, inoltre, permette a Geroni di fissare tutti quegli elementi che si ripetono e ritornano ossessivamente
nell’opera pavesiana. Lo studioso ha il merito non solo d’aver individuato tali elementi ricorrenti,
ma di averli messi a sistema nel suo saggio facendoli dialogare fra loro in maniera lineare e asciutta,
così da fornire una visione complessiva del rapporto tra Pavese e la «diade inizio\origine» (p. 97).
Nella prima parte, infatti, Geroni offre una lettura intertestuale dell’immagine della finestra,
considerata come la soglia e/o come il limite conoscitivo (p. 28), e introduce il lettore al problema
dell’autenticità, dell’accesso a una «dimensione eterna e autentica in cui l’essere è e non diviene»
(p. 27). Ma tutto questo è reso possibile esclusivamente da un’apertura sul reale, che può coincidere
tanto con lo squarcio nella grotta che vede Orfeo nel dialogo, quanto con la finestra dalla quale
Leopardi immagina l’infinito (p. 28). Tutte suggestioni di cui Pavese doveva essere perfettamente
consapevole, e infatti lo studioso non manca di ribadire come la finestra ricorra nel resto della
produzione precedente e successiva ai Dialoghi : nella poesia Il paradiso sui tetti, ma soprattutto
nella raccolta Feria d’agosto , dove la finestra diventa, per Pavese, vero e proprio «accessus ad
vitam» (p.28), capace di proiettare l’uomo in una dimensione generata dall’infanzia che viene
definita estatica. E l’infanzia contiene anche «tutti gli elementi che determineranno la vita
dell’individuo adulto» e il suo destino (p. 31).
La predestinazione è il perno di Paesi tuoi , prima opera di narrativa pubblicata da Pavese ma che
già manifesta una «propensione» per il mito e il suo rapporto con il mondo originario (p. 34).
Geroni, come spesso la critica è stata costretta a fare con Pavese (si vedano già le considerazioni di
Giuseppe De Robertis sulla «Gazzetta di Parma» nel 1957 a proposito della Spiaggia), deve dunque
contestare l’autore stesso. Pare, infatti, che Pavese abbia manifestato a un certo punto della sua
carriera, quasi un’insofferenza nei confronti di tutti gli scritti precedenti alla “conversione” di Crea,
ovvero a quel momento sopraggiunto durante il soggiorno presso Serralunga di Crea che ha segnato
il superamento di una dimensione selvaggia della campagna, poi divenuta «sede di esperienze
simboliche» (p. 33), e quindi l’approdo alla poetica del mito.
A partire dalla spinosa questione della “conversione” di Crea, lo studioso assegna un ruolo di primo
piano a Paesi tuoi, con una particolare attenzione allo stile del testo. Le parole, la sintassi irregolare
e il ritmo consentirebbero una «rappresentazione del tempo umano per mezzo del racconto» (pp.
45-46). La lingua usata da Pavese, infatti, è «disarticolata, paratattica» e riflette la «percezione
frammentaria» che Berto, la voce narrante, ha della campagna (p. 50).
Procedendo in questo modo, Geroni approda a un’altra considerazione fondamentale: il linguaggio,
la scrittura in senso lato, è per Pavese lo strumento di scavo del reale attraverso cui descrivere il
proprio modo di percepire la realtà (cfr. p. 64).
Ma la rilevanza di Paesi tuoi
non finisce qui: il romanzo è esso stesso un inizio, poiché Pavese,
durante il confino a Brancaleone comincia a riflettere sui propri mezzi espressivi e sulla necessità,
inevitabile, di passare alla prosa. Come questi ragionamenti appuntati nel Mestiere s’inseriscano nel
percorso tracciato dallo studioso è presto detto: Pavese vuole ritrovare la vena poetica autentica, in
altre parole vuole «iniziare dall’inizio» (p. 70).
Questo momento di transizione, a detta dello studioso, è stato poco approfondito dalla critica ma in
realtà sottolineerebbe un aspetto della personalità di Pavese che caratterizza l’opera nella sua
totalità: lo scrittore ha sentito il bisogno di «fondare un progetto», dare valore e senso a qualcosa
che, nel ’35, sentiva come ancora in via di definizione (p. 69).
E Geroni individua anche una poesia, non a caso intitolata Mito, che oltre a rappresentare quel
«doppio binario» rintracciato nella «diade inizio\origine» (p. 97), segna il passaggio dalla poesia
alla prosa e anticipa quel che accade in Paesi tuoi: un dio divenuto uomo fa da compromesso e
mediazione fra due realtà, una raccontata dal personaggio (Berto che entra in contatto con la
campagna selvaggia) e una che Pavese chiama «la mia logica fantastica» (che potrebbe essere la
dimensione primigenia di cui Berto farà esperienza). Un’ulteriore conferma di quella ciclicità di
temi nella produzione pavesiana suggerita già all’inizio del saggio.
Il punto d’arrivo del percorso di Geroni è, com’era prevedibile, Moby Dick, vero inizio per Pavese,
dove le figure di Orfeo, Achab e lo stesso autore coincidono, rappresentando l’uomo moderno con
tutte le sue idiosincrasie, e si confrontano con quella che Pavese chiamava «vacuità muta» (pp. 94-
95), ovvero la balena bianca, che rappresenterebbe «l’indomita e selvaggia natura del mito» (p. 95),
insondabile e inafferrabile.
È questa la riflessione conclusiva che Geroni affida alla parte su Lavorare stanca
ma che si
mantiene e si ripete in tutta l’opera. Pavese cerca di «cogliere il senso latente» delle cose e questa
ricerca è fondata su un paradosso: voler «definire e ritrovare ciò che per definizione non può essere
definito una volta e per sempre»; insomma, una quête, quella pavesiana, fondata sull’impossibilità
di risalire all’origine e quindi, conclude lo studioso, di ritornare ossessivamente all’inizio (p. 89).
A questo punto sarebbe utile fare un altro passo indietro e tornare a Paesi tuoi
e alle considerazioni
della studiosa Giuditta Isotti Rosowsky che vengono riportate nel saggio. Rosowsky ha dato alle
opere di Pavese la formula sartriana di «romanzo deludente», in cui le divagazioni e l’inutilità
apparente di certi eventi sono un «dispositivo narrativo, volto a infastidire il lettore, a irritarlo e a
condurlo alla delusione» (p. 64).
E allora se, come lascia intendere Geroni, Pavese nelle sue opere rappresenta la realtà da lui
percepita, bisognerebbe chiedersi se questa insoddisfazione insita nei romanzi non sia la prova che
oltre le colonne d’Ercole che Pavese aveva posto fra sé e il mondo non vi aveva davvero trovato
niente, e aveva finito per scontrarsi con la definitiva impossibilità di «attualizzare il mito» (p. 96).
Una conclusione legittima, alla quale l’autore conduce il lettore rispettando e restituendo la
complessità di un percorso controcorrente che ha voluto ricalcare la «strada che Pavese ha scelto
per raccontarsi» (p. 96).