Primo intervento.
Vorrei dire in premessa che la parola dell’artista è strutturata in maniera diversa da quella del critico. E il linguaggio dell’artista è già così pieno di problemi, di suo, che fatica a venire incontro al linguaggio dello studioso: è strutturato in maniera diversa. Per cui mi piacerebbe, stasera, essere considerato un “testimone informato dei fatti”, in ragione anche della mia attività; vorrei parlare di come un artista possa recepire un’indagine così puntigliosa e in molti passaggi anche eccitante… Perché è una bella esperienza, quando un artista – leggendo un libro – si vede “attraversato”, o vede che un certo ragionamento ha già fatto parte dei suoi pensieri, e lo vede esplicitato in questa forma.
Intanto dirò che è un saggio esplosivo cioè seminato di ordigni significanti. Ma prima di entrare nel merito parlerei della poliedricità di Giuseppe Frazzetto, se posso permettermi. Perché il suo è un linguaggio trivalente – per come io lo conosco, avendo anche il piacere di essergli amico. Il suo è il linguaggio del clinico, altamente specialistico, poi c’è un Frazzetto critico d’arte, che media il linguaggio specialistico e diventa più divulgativo e infine c’è il Frazzetto oratore (il conferenziere) che traduce se stesso.
Io ho avuto modo di sperimentare personalmente la bellezza della sua scrittura, soprattutto nell’ultima esperienza che ho avuto il piacere di fare con te, Giuseppe, il testo che un paio d’anni fa hai scritto per la mia mostra dal titolo Boudoir, alla Fam Gallery di Agrigento. Una mostra tutta giocata su una “reverie” del Settecento (e così ho scoperto che anche tu sei innamorato di quel secolo che ti interessa molto). Quel testo è tra i più belli che siano stati scritti per me. Allora ti dissi che con quel testo mi sentivo come un malato che si rivolge a uno specialista per conoscere qual è la sua malattia. Mi hai dato allora un referto medico di eccezionale valore.
Dico questo perché questo libro (Nuvole sul grattacielo) è un invito allo studio soprattutto per chi non vuole limitarsi alla superficie, anche se si tratta dello studio della Superficie. È lo studio al microscopio della Superficie, del Gusto del nostro Tempo.
Questo libro custodisce gli ingredienti, i semi, per un’applicazione sociale. Questo libro è un applicativo di qualità buono per il sistema operativo dei linguaggi sociali.
Andiamo al titolo, che è il “motore di avviamento” del libro: non ha poi un’importanza centrale nella narrazione, ma mette in moto tutto il meccanismo di ragionamento fenomenologico ed epistemologico sull’arte contemporanea, consigliato a tutti i giovani studiosi (e non solo) ma anche agli artisti che – come ho già detto – non vogliono fermarsi alla superficie. La parabola utilizzata, che è quella delle nuvole, è stata usata come mezzo di contrasto (sempre per tenerci nell’indagine clinica), come un liquido rivelatore che serve a rivelarci elementi patologici del linguaggio del nostro tempo. E dalle prime pagine si parte con una riflessione sulla pittura. Permettetemi… ho bisogno ogni tanto di citare qualche brano, perché il libro che può sembrare complesso ha, poi, una chiarezza linguistica veramente straordinaria.
Cito da p. 19 «Il sintagma Nuvole sul grattacielo fa cenno alla situazione odierna, in cui la produzione di immagini è diventata un problema che riguarda tutti, non soltanto gli artisti. Siamo tutti mobilitati verso un’attività ‘creativa’. Non sono più i tempi in cui produrre immagini richiedeva una specifica tecnica artistica. Anzi, la pittura è stata per così dire retrocessa. Calunniata dalle mille occorrenze della sua condanna come ‘medium obsoleto’. Solo che la pittura non è un medium ‘qualsiasi’, bensì necessario, stante il suo posto di rilievo nell’ominazione. Non ci dilungheremo sulla questione; basterà qui ricordare che (come scrive Monica Ferrando) ‘La pittura, unica in questo tra le attività umane, muove direttamente dalla preistoria. Come tale, precede il documento scritto essendone forse anche, in qualche modo, l’ambito di gestazione. Nel corso dei millenni e dei secoli le immagini nate dalla pittura hanno scandito i mutamenti delle forme dell’apparire delle civiltà e ne hanno nel contempo restituito le invarianze: sono esempi tratti dalla pittura a dare il senso del passato, tanto immemoriale che storico, ad intrecciare in un unico plesso permanenza ed impermanenza, tradizione e rottura, tempo e spazio’».
Io trovo questo pasaggio fondamentale, perché è come se si sentisse la necessità di partire da questo medium – la pittura – per potere riflettere poi su come questo medium, nel passaggio tra moderno, contemporaneo e postcontemporaneo, si sia vaporizzato, esploso in mille frammenti fiammeggianti, incandescenti, che sono quelli dell’attuale comunicazione di massa: quell’autodeterminazione estetica che è uno degli elementi trainanti del libro.
Quindi… questa pittura «calunniata dalle mille occorrenze» (bellissima espressione!) …questa Pittura che in fondo – nel passato – ha avuto altre occasioni d’essere “calunniata dalle mille occorrenze”: una, importantissima, fu quella traumatica del cinema. Il cinema portò nel mondo delle immagini non solo immagini che non nascono da una rielaborazione della realtà (in quanto sono proiezioni della realtà stessa) ma che in più ‘si muovono’, cosa che la pittura ha cercato di sintetizzare in mille modi. Ma – ovviamente – non era nel suo statuto il ‘far muovere le figure’. Eppure, io dico: proprio in questo sta la magia della pittura: se nel cinema la magia è data dal movimento delle immagini, in pittura il suo miracolo sta nel fatto che le immagini (tratte da una realtà in movimento) restano immote, perennemente. E non si muoveranno mai nel loro mondo, a meno che non sopraggiungano altre protesi tecnologiche esterne a sintetizzarne il movimento con altre tecniche.
«Ma qui non si parla della pittura», dice il libro «si parla di nuvole», si parla dell’enigma della visione.
Io sono stato affascinato, lo sono sempre, dalla rappresentazione delle nuvole che a volte sono un segno identificativo della mia pittura. Gli elementi nebulosi attraversano tutto il mio percorso, come nel mio quadro in cui ho omaggiato il celebre pittore kitsch Thomas Kinkade: quella ‘domenica dello sguardo’ fatta di paesaggi alpestri, baite di montagna e fiori. Nel mio quadro, da una di queste baite alla Kinkade si sviluppa una teoria di fumo e di nuvole che poi in realtà sono i veri, forse i soli, protagonisti del quadro. Anzi il quadro è quelle nuvole.
Secondo intervento
A me sono piaciuti molto alcuni concetti del libro che, oltre l’analisi fenomenologica, ci restituiscono l’io narrante. Uno di questi concetti è denominato “l’effetto Sisifo” che è il paradigma del moderno, la dinamica di avvicinamento perenne, il movimento perpetuo dell’arte e dell’artista, l’illusione continua di essere arrivati alla meta, cosa che poi non è. L’effetto Sisifo è l’adozione della maschera ludica alle fatiche del quotidiano vivere. Per contro c’è un’altra nozione stuzzicante, cioè la “Stimmung del postcontemporaneo” (del nostro transitorio presente). È una forma di lutto, in quanto pretende la piena attuazione delle forme del Moderno, ma non le può avere, non le può soddisfare. Arrivo al concetto che mi stuzzica di più che è quello dell’”ironizzato romantico” postcontemporaneo, una condizione di frustrazione inconfessabile che va a concretizzarsi, nella mia lettura, in uno specifico artista. (È vero quel che ha detto poco fa Giusi Diana: “nel libro vi è un modo per non parlare di arte direttamente”, ma è anche vero che il libro restituisce dell’arte contemporanea le sue più profonde pulsioni, in molti passi si possono scorgere certi artisti, certe situazioni). E così io ho identificato come esempio, quale artista emblematico del concetto di “ironizzato romantico”, John Currin: un artista che esprime elegantemente l’impossibilità del contemporaneo di compiere l’azione storica del Moderno. Paradossalmente il suo successo consiste in quella sua ostentata impossibilità. E così l’inattualità diventa la sua più grande risorsa. L’“ironizzato romantico” io lo identifico in John Currin. Dunque il libro mi da degli spunti che (per forza di gravità della mia funzione) vanno a cadere in questi mondi dell’immagine, e in altri ancora.