Tutti ne parlano, tutti la mettono al centro
ma forse il vero motivo è perché la città non
esiste più. Ne è convinto, e da tempo, Rem
Koolhaas: «la città non esiste più. Poiché l'idea di
città è stata stravolta e: ampliata come mai nel passato, ogni tipo di insistenza su una condizione primigenia -in termini visivi, normativi, costruttiviha come esito inevitabile, complice la nostalgia,
quello dell'irrilevanza». Continuiamo a pensare a
Parigi, Londra e NewYork come i paradigm i della
città contemporanea, invece questi sono costituiti da Atlanta e Singapore, modelli della "città generica" che si sta proiettando sulle metropoli sorte sulle tracce delle città storiche. Sono temi che
l'architetto e urbanista olandese ha affrontato in
testi capitali come Iunkspace (dove appunto siteorizza la città generica, città senza storia spinta da
una autogenesi che la costringe a divorarsi e rinascere continuamente) eil monumentale S,M,L,XL.
A completamento del quadro Quodlibet ha ora
raccolto i Testi sulla (non) più città (pagine 240,
euro 18,00), serie di scritti-in gran parte inediti in
italiano - sulla natura della città contemporanea
e sulla sua "sostanza urbana" radicalmente mutata negli ultimi decenni.
Cosa caratterizza la non-più-città secondo
Koolhaas? La scomparsa del centro e quindi anche
della periferia, la penetrazione dell'ecologia nelle
aree urbane con «l'ubiquo inserimento di prati ezone piantate ad arbusti», l'ossessione del controllo
e della pulizia consumato attraverso la saturazione e la norma. «Oggigiorno qualsiasi spazio vuoto
è preda della frenesia di riempire e tappare». La
progettazione del vuoto rubano è uno degli spunti più interessanti del pensiero di Koolhaas, sviluppato fin dagli anni Ottanta a Berlino accanto a Oswald Mathias Unger. Nella città ancora divisa dal
Muro (a cui ha dedicato una memorabile tesi di
laurea, raccontata in S,M,L,XL e recuperata giustamente in questa antologia) Koolhaas elabora l'idea
di città-arcipelago che conservasse le macerie della storia in quanto «elemento più significativo della storia stessa». La metropoli, attraverso una azione di ricostruzione decostruzione, si sarebbe così configurata come un sistema di «isole'"architettoniche", sospese in un paesaggio post-architettonico, o in una cancellazione, dove ciò che una volta era considerato città viene sostituito da un nulla sovraccarico. I] tipo di coerenza che una metropoli può raggiungere non è quella di una compoizione omogenea e pianificata. AI massimo può
essere un sistema di frammenti, di realtà molteplici». In questo senso la capacità di «progettare il degrado», degrado che e la caratteristica del moderno, diventa essenziale: «Solo tramite un rivoluzionario procedimento di cancellazione e la creazione di "zone libere", veri e propri Nevada concettuali
in cui tutte le leggi dell'architettura vengono sospese, sarà possibile mettere fine ad alcune delle
torture inerenti alla vita urbana- l'attrito tra programma e impedimento».
Se il fideismo nell'ingegneria della pianificazione e
la mitografia della rigenerazione attraverso nuova
architettura restano la tendenza, forti anche di una
facile presa sotto il profilo mediatico, non mancano gli esempi contrari. E il caso del Premio Scarpa
2022 al Natur-Park Schöneherger Südgelände frutto del lungo periodo di abbandono diun'immensa
area ferroviaria e del successivo riconoscimento del
luogo come espressione di una "natura urbana berlínese". O ancora dei temi e dei progetti portati da
Richard Sennett e Pablo Sendra in Progettare il disordine. Idee per la città del XXI secolo (Treccani, pagine 184, euro 21,00). È una ripresa a 50 anni di distanza degli spunti di Usi del disordine di Sennett,
sociologo impegnato nella dimensione urbana, riletti al presente e accompagnati da una riflessione
di tipo progettuale da parte di Sendra, giovane urbanista. Per Sennett l'urbanistica è stata sottratta
alla dimensione pubblica ed è diventata terreno di
gioco del capitale monopolistico. Uno scenario ir
rigidito da una normazione rigida e ipertrofica. Ma
l'assenza di flessibilità reprime la libertà d'azione
delle persone, ostacola le relazioni sociali informali e inibisce la capacità di crescita della città. Il libro
propone «un modello di progettazione alternativo
e sotto determinato, un city-rnaking che per mezzo di "perturbazioni" sovverte le forme rigide». Si
respira aria di controcultura anni Settanta e utopismo anarchico. Ma è un dato di fatto che la modernità - anche dal punto di vista burocratico - non
contempla il "non finito" e relega l'incompiuto e
l'indeterminato in un limbo senza cittadinanza. Il
nostro tempo non è più in grado di pensare qualcosa che non abbia in sé la propria conclusione e
forse anche per questo la città moderna (come aveva intuito Koolhaas e ribadisce Semmett) è connotata da una fragilità dovuta all'assenza di elasticità: non prevede altra funzione da quella per cui è
stata determinata Sennett indaga come ambito vitale i territori di passaggio e le narrazioni aperte offerte dalle forme incomplete. Davvero le nostre nonpiù-cirtà oggi hanno bisogno di "infrastrutture per
il disordine", spazi disponibili all'imprevisto, quelli
che Sennett definisce «luoghi pieni di tempo».