Recensioni / Una amnesia per dare rifugio a ciò che è indimenticabile

Una amnesia per dare rifugio a ciò che è indimenticabile

di Marco Dotti

Forse qualcosa del balbettio neonatale rimane anche linguaggio dell’adulto? Se così fosse non potrebbe che presentarsi nella forma dell’eco: di una altra lingua o di qualcosa di diverso dal linguaggio. Questa la tesi di Daniel Heller-Roozen nel suo «Ecolalie», per Quodlibet

In un certo senso i bambini non perdono mai i suoni di cui dimenticano l'articolazione. E questo nonostante smarriscano, nel corso del processo di apprendimento che dall’inarticolato e dall'indistinto li conduce verso la lingua specifica che sarà poi la loro lingua madre, tutte queste capacità fonatorie che neppure il più dotato e abile fra i poliglotti adulti potrebbe immaginarsi di emulare. Sulla questione aperta dalla cosiddetta "lallazione infantile”, Roman Jakobson) ha scritto pagine fondamentali, in particolare nel suo lavoro - redatto tra il 1939 e il '41, durante gli anni d'esilio in Svezia e Norvegia - dedicato al Linguaggio infantile, afasia e leggi generali della struttura fonetica. Per lo studioso russo, un bambino può facilmente accumulare un gran numero di articolazioni che non è possibile ritrovare in nessuna lingua particolare o addirittura in nessun gruppo di lingue. Che si tratti di vocali complesse, di consonanti arrotondate o sibilanti, di dittonghi o di quant'altro, una volta giunto a quello che Jakobson propone di chiamare "apice del balbettio”, al bambino non si può porre alcun limite.
Le capacità fonatorie di questo borbottio sono incomparabili e su un terreno del genere gli "infanti" appaiono capaci di tutto. Senza il minimo sforzo, possono produrre un suono qualsiasi di una qualsiasi lingua del consesso umano. Ma l'apprendimento di una lingua particolare che, a prima vista, potrebbe sembrare facile e immediata, a uno sguardo più attento si rivela uno scoglio arduo da superare. Soprattutto per le rinunce a cui il bambino sarà costretto: “Come tutti gli osservatori riconoscono con grande sorpresa", osservava ancora Jakobson, “ne1 passaggio dallo stato prelinguistico all'acquisizione delle prime parole, cioè al primo stadio propriamente linguistico, il bambino perde interamente la sua capacità di produrre suoni”. A commento delle considerazioni di Jakobson, proprio in apertura del suo Ecolalie. Saggio sull'oblio del linguaggio (pp. 258, euro 24), recentemente tradotto do Andrea Cavazzini per Quodlibet, il comparatista Daniel Heller-Roazen nota come tra il balbettio dell'infante e le prime parole di un bambino non vi sia però un “passaggio evidente” quanto, almeno in apparenza, la prova di una cesura e una "interruzione decisiva”. Eppure è proprio la constatazione quasi definitiva di tale "interruzione" ad aprire, anziché restringere il campo a una serie di questioni e problemi di non poco conto. Questioni e problemi attorno ai quali Heller-Roazen struttura i ventotto capitoletti di un libro che, grazie a spunti linguistici e storico-culturali spesso imprevedibili e a una scrittura raffinata e non gergale, spazia con abilità ma senza superficiale eclettismo e soprattutto senza annoiare, da Ovidio a Canetti, dalla teologia islamica alla mistica ebraica, dalla psicoanalisi alla fonologia, raccogliendosi attorno al problema, e al paradosso, di una amnesia che può non solo "custodire l'indimenticabile”, ma rappresentarne il rifugio più sicuro, esattamente come avviene per gli attacchi epilettici responsabili dei vuoti di memoria dell'Idiota.
Come è possibile, si chiede Daniel Heller-Roazen, che il bambino resti a tal punto affascinato dalla realtà di una sola ed esclusiva lingua madre da abbandonare l'illimitato "regno che contiene le possibilità di tutte le altre"?
Due fatti sembrano a prima vista sorgere nella “voce svuotata di suoni che il bambino non sa più emettere: in parallelo alla scomparsa dell'infinita congerie di suoni che l'infante riusciva a produrre all"apice del balbettio", infatti, emergono sia una lingua, sia un essere parlante. Forse, si chiede ancora l'autore, la perdita di quell'illimitato armamentario fonetico è il pegno che il bambino deve pagare “per ottenere i documenti che gli garantiscono piena cittadinanza nella comunità di una singola lingua". O forse - e questa è la tesi forte del libro - qualcosa di quel balbettio sottotraccia permane anche nei 1inguaggi dell'adulto? Se così fosse, questo frammento, questa permanenza non potrebbe che presentarsi nella forma dell'eco, l’eco di un’altra lingua, o di qualcosa di "altro" dal linguaggio: una "ecoloalia", appunto. Ecolalia che Daniel Heller-Roazen non tarda a definire come "custode della memoria di quel balbettio indistinto e immemoriale che, perdendosi, ha permesso a tutte le lingue di esistere". Nel terzo capitolo del libro, Heller-Roazen fa appello al Compendium grammatices linguae hebraeae di Baruch Spinoza per evidenziare l'assoluta e, anche in questo caso, paradossale impronunciabilità della lettera “aleph”, che dell'ecolalia così come è intesa nel libro sembra la pietra angolare. La lettera non può essere pronunciata non per la sua complessità bensì perchè troppo semplice e nessun uomo riuscirebbe ad articolarla, non rappresentando in sé alcun suono.
Per Spinoza, il carattere fonetico dell"aleph" non poteva essere "spiegato da nessuna altra lingua europea” e, in qualche modo, si limiterebbe a ricordare “l'inizio del suono nella gola, udibile quando essa si chiude".
Eppure, proprio la delucidazione offerta da Spinoza potrebbe nascondere una certa verità sulla natura delta lettera che, osserva Heller-Roazen, è forse molto più modesta di quanto i grammatici non siano disposti a credere. Se, da un lato, questo è il caso di impronunciabilità per difetto, molto diverso quindi dall'eccesso di difficoltà che rappresentano la dentale enfatica dell'arabo classico o la sibilante liquida del ceco (che lo stesso Jakobson confessava di non riuscire sempre a pronunciare), dall'altro è come se il suono stesso di "aleph" fosse stato dimenticato dal popolo stesso che in origine la emetteva.

Al di là delle dispute e delle ricostruzioni filologiche sulla sua probabilissima derivazione dall'arabo “hamza", l'autore ricorda il fatto che tra le numerose pronunce odierne dell'ebraico, nessuna assegna un suono, specifico alla lettera, ma tutte la considerano "alla stregua del supporto silenzioso delle vocali che essa legge". Essa si trova, così, privata anche del "non-suono, dell'interruzione nell'articolazione" che si ritiene esprimesse in un passato mai ben definito. Ma non è un caso che, a dispetto della sua assoluta e radicale povertà fonetica, questa lettera goda di un posto di privilegio nella tradizione ebraica e i grammatici la considerino la prima, fra le lettere dell'alfabeto, o il più antico fra tutti i segni. Antico a tal punto che, in alcune letture, essa viene indicata come precedente a tutto, persino alla Torah. Quasi il silenzio fosse “non solo il segno, ma anche il motivo della sua distinzione", quasi Dio avesse inteso manifestarsi agli uomini in una singola lettera di cui nessuno poteva ricordare il suono, una lettera da sempre dimenticata.
Forse per questo, alla fine Heller-Roazen suggerisce che all' “aleph" competa la dimensione del "luogo vuoto", della lettera muta capace di custodire “l’oblio che inaugura ogni alfabeto”. L'eco, in altri termini, della memoria cancellata di quella babele infantile che nell’attimo in cui scompare, rende possibile la presa di parola.