Recensioni / Montale-Solmi, carteggio sull'etica della poesia

La pubblicazione dell’epistolario che testimonia del lungo dialogo fra Eugenio Montale e Sergio Solmi (Ciò che e nostro non ci sarà tolto mai, a cura di Francesca D’Alessandro, Quodlibet, pagine 700, euro 60) è un invito a pensare la letteratura del Novecento non come un fatto compiuto e concluso, ma nelle sue origini e come ricerca in atto. Gli epistolari degli scrittori scavalcano all'indietro le loro opere e ci permettono di entrare nella loro quotidianità e nei presupposti della loro vocazione letteraria. Si pensi alle lettere di Leopardi e a quelle di Kafka, coinvolgenti non meno delle opere letterarie. Nel caso di Montale e Solmi non siamo a un tale livello di intensità e il carteggio è distribuito in un arco di tempo lungo una vita, dal 1918 al 1980. Eppure, soprattutto dal 1920 al 1940,' il poeta critico Montale e il critico poeta Solmi si specchiano l'uno nell'altro mentre dalla gioventù si avviano verso la loro maturità di scrittori. Due personalità intellettuali in evoluzione e ancora prive di certezze si assistono e si confortano con il calore di una rara sintonia e comprensione reciproca. E così il ventiquattrenne Montale scrive «Carissimo Sergio (...) se non fossi da molti giorni caduto in uno stato di apatia grigia e dolorosa, t'avrei risposto assai prima. Che vuoi, soffro di sentirmi diverso dai più, inetto alle cose pratiche della vita (...) Mi fraintenderai se ti confesserò che, in un certo senso, l'Arte non mi interessa più? (...) Io per me vorrei vivere, risolvere nell'azione tutte le disarmonie e le discordanze che sono in me. Sono un malato di romanticismo che protesta contro le nebbie romantiche. Tutti gli ismi contemporanei mi hanno nauseato (...) al bello si preferisce l'originale. Come se la presente pazza ricerca di individualità non significasse precisamente che l'individuo non esiste più». C'è già qui tutta la lucida autocoscienza di Montale, a cui il ventunenne Solmi risponde: «Carissimo Montale (...) mi trovo ora qui, nella monotona pianura emiliana, presso certi miei parenti, e sono completamente: solo (...) Mi sfogo in accanite diuturne letture. Sto imbeverendomi a tutt'andare di Kant e di Schopenhauer, riservandomi per le ore patetiche due poeti che mi sono fra i più cari, Poliziano e Laforgue». Sia Montale che Solmi ammirano molto Camillo Sbarbaro; ma poi Montale osserva che le poesie di Solmi fanno riflettere sul fatto che «i nostri tempi han fatto dell'arte una espressione pura e semplice di verità», mentre c'è da chiedersi «se arte non sia anche e soprattutto artifizio, ma artifizio d'ordine superiore che finisce per raggiungere una verità più eterna di quelle che a noi pare di servire confessandoci». Dunque poesia come artificio necessario a raggiungere una verità che non sia solo quella puramente autobiografica: e qui sembra che Montale pensi già alla propria poesia, alla sua complessità e densità formale, confrontata con quella troppo poco "artistica" sia dell'onesto Sbarbaro che forse dello stesso Solmi, poeta più mentale e meditativo che inventivo. Il punto dolente a me sembra che sia la troppo scarsa sensibilità diciamo etico-politica di Montale, che fin da giovane è stata il suo maggiore limite caratteriale, come poeta non meno che conte intellettuale: si tratta del suo giudizio singolarmente aspro e miope su Piero Gobetti, il cui coraggioso, geniale attivismo intellettuale e politico si rivelava fin dall'inizio come una delle fonti più vive e inesauribili dell'antifascismo italiano. Quel ventenne torinese che era Gobetti fu il fondatore di riviste come "La rivoluzione liberale" e il "Baretti", per le cui edizioni, tra l'altro, uscì nel '1925 Ossi di seppia, primo e rivelatore libro poetico di Montale. Solmi era il più adatto a recensirlo e immediatamente lo recensì. Decenni dopo, a metà degli anni Cinquanta, sarà ancora Solmi a scrivere l'ampio saggio La poesia di` Montale, che resta tuttora un insuperabile culmine critico sull'autore più influente e studiato del nostro Novecento poetico. Il misantropo e scetticissimo Montale, così filosoficamente, consapevolmente anticomunicatívo, aveva bisogno dell'affabile Solmi, coetaneo e amico di gioventù, per essere compreso sia nella sua esemplarità letteraria che sei suoi limiti morali dí classico della modernità. Poi sarebbero arrivate schiere di studiosi, sempre meno capaci di vedere un uomo dietro uno stile.