Recensioni / Lo scaffale di Andrea: Dalla via Emilia a s. Pietroburgo

Pothos è, in greco antico, il desiderio di qualcosa (luogo, oggetto, persona) che non è presente, che si trova altrove, che è lontano. È qualcosa per cui ci si strugge perché è assente.
Nella mitologia antica pothos è il figlio di Afrodite che incarna il desiderio per la persona assente; rappresenta la nostalgia per un amore che è altrove. Scrive Lucrezia Ercoli nel suo bel libro “Yesterday. Filosofia della nostalgia” (Ponte alle Grazie 2022):

“Nella celebre statua di Skopas del complesso statuario per un tempio di Afrodite datato 30 a.C., riprodotto in varie copie lungo tutto il corso dell’antichità, pothos è rappresentato come un giovinetto dal corpo sbilanciato che si appoggia mollemente a un tirso. Nella melanconia funebre del suo sguardo trasognato – che ricorda la paralisi degli spiriti animali che molti secoli più tardi sarebbe stata descritta da Hofer – si incarna il carattere costitutivamente tragico di questo desiderio dell’assente” (Pag. 83).

Ma non limitiamoci alla fenomenologia dell’amore. La Ercoli fa un esempio significativo di una persona prigioniera e assillata dal pothos: Alessandro Magno:

“Nell’ellenismo, pothos – il desiderio che permette l’affiorare di una nostalgia per qualcosa che non c’è – è incarnata da Alessandro Magno. In Alessandro, infatti, il desiderio per cose non più presenti si trasforma in un desiderio per cose non ancora presenti” (Pag. 85).

E poco oltre:

“La nostalgia che nasce sotto il segno di pothos è sconfinata, ha in sé l’impossibilità di essere saziata. Ogni tentativo di identificare un posto reale e tangibile verso il quale dirigersi è congiunto alla consapevolezza dell’impossibilità di un completo e definitivo ritorno” (Pag. 86).

pothos non va confuso con la saudade di pessoana e tabucchiana memoria che, nella sua accezione più autentica, significa avere nostalgia del momento che si sta vivendo proprio nel momento in cui lo si sta vivendo, una nostalgia del futuro. È piuttosto imparentato con la nostalgia di luoghi lontani e mai visti di cui scrive Baudelaire nei suoi poemetti in prosa, raccolti ne “Lo spleen di Parigi”.
Ma il pothos ha qualcosa a che fare con Tiziano Bisi e il suo libro, bello, avvincente, importante “Dalla Via Emilia a San Pietroburgo” (Quodlibet 2021)? Lo vedremo più avanti. Intanto chi è Tiziano Bisi?
Tiziano Bisi è nato a Bologna. Si è laureato in Lettere e Filosofia con una tesi su Sciascia e il romanzo poliziesco. È stato pubblicitario e autore di popolari spot televisivi nazionali. Ha fondato un marchio che è leader del turismo medico nell’Europa dell’Est. Ha vissuto per anni a San Pietroburgo dove ha lavorato come insegnante alla Facoltà di Filologia dell’Università Statale e come consulente commerciale. Vive tra Bologna, Fiume in Croazia, San Pietroburgo.
Il titolo del suo libro riecheggia il verso della canzone di Francesco Guccini “Piccola città”, “… fra la via Emilia e il West…” contenuta nell’album “Radici”. Nella canzone è il West, nel libro di Bisi l’Est. Sì, perché ci si può muovere on the road, non solo attraversando gli USA come ce lo narrò Jack Kerouac nel suo ormai mitico libro “On the road”, ma anche andando in direzione Est, Nord Est. Di questo parla il libro di Bisi. Parla di viaggi in pullman e in treno, parla di incontri con badanti e di una variegata umanità, parla di Varsavia e delle repubbliche baltiche, di Budapest, Kiev, Riga, parla di San Pietroburgo e della sua vita locale, di bar, amicizie, ragazze, luoghi leggendari, di una città che trasuda letteratura, di italiani che vi abitano e che, di quella letteratura, non sanno nulla. Dell’incanto che emanano le sue vie, i suoi quartieri, i suoi ponti.
Pagine molto belle e evocative le sono dedicate. E in queste pagine si percepisce ancora la presenza di grandi scrittori come Puskin, Gogol, Blok, Dostoevskij e tanti altri.
È a San Pietroburgo che il narratore, da viaggiatore, si trasforma in flaneur:

“Io amo camminare per San Pietroburgo vagabondando senza una meta precisa lungo quelle sue vie dritte tagliate da ponti, agghindate di archi, carezzate dai giardini, su e giù per quello che neppure uno potrà mai considerare come un semplice agglomerato urbano. Trattandosi, viceversa, del più ampio museo a cielo aperto di cui la Russia e l’Europa possono vantarsi, o, come ebbe a scrivere Andrè Gide, della ‘più armonica fusione della pietra, del metallo e dell’acqua’.
‘Perché io mi considero il seguace di un culto animista di San Pietroburgo’ e dei suoi 342 ponti, 94 canali, fiumi, fiumiciattoli e 42 isole e ne celebro quei luoghi sacri che mi rovistano solo a nominarli” (Pag. 149).

Al narratore piace camminare, ma è insofferente alle tappe obbligate scandite dal turismo di massa. Vuole essere libero di muoversi, di esplorare quartieri se lo desidera, di incontrare persone, di sostare nei pub, di andare per musei decidendo lui il quando e cosa vedere. La sua è una flanerie che ricorda quella di Baudelaire per le vie di Parigi. E la flanerie è un andare a zonzo senza avere una meta precostituita, un guardarsi intorno, soffermarsi, proseguire.
A proposito del viaggiare, di Baudelaire, dell’altrove, c’è un’altra pagina molto bella che cito per intero.
Il narratore è sempre a San Pietroburgo. Schiacciato sul sedile di un pulmino riflette su cosa significa il viaggiare, il sentirsi a casa, l’andare:

“Schiacciato sui sedili spellati di quel pulmino, mi sento già molto al di là delle Colonne d’Ercole, molto al di là della fine del mondo. Talmente al di là, oltre, da sentirmi a casa. Così come mi sentivo a casa su quel treno in partenza alle ore 21.30 dalla stazione Santa Lucia di Venezia con arrivo alle 10.45 del mattino nella stazione Keleti di Budapest; lungo le vie disgraziate di Bucarest; diretto a Cracovia su un pulmino Eurolines gonfio di badanti; sul traghetto che da Ostenda faceva rotta fino a Dover; in un bar malandato di Tijuana bevendo birra Corona, o caipirinha a Olinda con i piedi pigiati sul limitare di quell’oceano dove è vietato tuffarsi perché là dentro gli squali sono a migliaia; scavalcando le Montagne Rocciose sdraiato per cinque giorni tra le poltroncine di un pullman Greyhound; e, ovunque, in quella terra incognita, in quella terra che non termina, in quella terra che è i confini del mondo, in quella terra che è la Russia: come nel porto tremendo di Vladivostok, rimirando geloso i bastimenti che salpavano per l’isola di Sachalin, dove le donne sono come il sole a mezzanotte, un ibrido, giapponesi e russe, bellissime.
‘Non importa dove! Non importa dove!’, scriveva Baudelaire. Ovunque vi sia un altrove in cui sognare di perdermi. Là io mi sento a casa” (Pag. 175-176).

Eccolo il pothos, ecco il desiderio insaziato dell’altrove, ecco ancora Baudelaire, il Baudelaire di “Any where out the world”:

“Andiamo ancora più lontano, fino al limite estremo del Baltico; ancora più lontano dalla vita se questo è possibile; installiamoci al polo. Là il sole rade solo obliquamente la terra, e le lente alternative della luce e della notte sopprimono la varietà e aumentano la monotonia, questo emisfero del niente. Là potremo prendere lunghi bagni di tenebre, mentre le aurore boreali, per divertirci, ci invieranno di tanto in tanto i loro rosei fasci, come riflessi di un fuoco d’artificio infernale!
Alla fine la mia anima esplose, e saggiamente mi disse un’esclamazione ‘Non importa dove! non importa dove! purché sia fuori dal mondo’”. (Dal blog: nonsolobiancoenero.com Trad. it. Franco Rella).

Un desiderio che torna, che torna come il rimosso, quando il narratore è in procinto di partire per uno degli estremi lembi dell’Europa: Murmansk:

“Io vorrei che al partire facesse seguito, sorprendentemente, il partire! Io vorrei che il mio viaggiare fosse, ininterrottamente, un non ritorno! Questo, significherebbe, per me, l’aver preso, l’aver imboccato la, cosiddetta, giusta direzione” (Pag. 216). E poco oltre:

“Ecco, io, vorrei tanto che a questo mio partire per Murmansk seguitasse un partire per il Mare di Barents; al quale seguitasse un partire per la Terra di Francesco Giuseppe; al quale seguitasse un partire per le isole Svalbard; al quale seguitasse un partire per la Groenlandia” (Pag. 217).

Non c’è nostos, non c’è il dolore che accompagna la lontananza da casa, c’è, come dicevo più sopra, pothos, c’è il desiderio di partire, viaggiare, andare sempre oltre perché per il narratore è l’altrove, l’oltre il suo ritorno a casa. C’è l’andare oltre e il camminare, c’è la flanerie di Baudelaire e la flanerie nella metropoli, anche se la metropoli non è Parigi.
E allora ecco un’altra pagina stupenda che mette a nudo il vissuto del narratore:

“Capisco, allora, che io sono uno di quei flaneur baudelairiani e che io mi sento a mio agio nello sfasciume della metropoli e che è lei il mio habitat e che pure mi ripugna e che io ho bisogno del suo traffico che pure detesto e che pure mi consuma i nervi; e che io ho bisogno della sua fretta incessante, delle sue incombenze, delle sue taverne, dei suoi caffè notturni, delle passeggiate per le sue vie, e che io ho bisogno della sua folla ottusa e maligna e senz’anima che pur mi spaventa; e che io ho bisogno dei suoi condomìni e dei suoi inquilini imbecilli che pure disprezzo e evito come la peste bubbonica; e che io ho bisogno dei suoi mercati e dei suoi negozi pieni di merci inutili e in sovrapproduzione e destinati alla discarica e che pure non compro e dove pure evito di metterci piede; e che io ho bisogno delle sue stazioni ferroviarie e delle sue rotaie per andarmene via in un altrove sempre nuovo e lontano e sperduto!
È laggiù, nel fracasso della metropoli, che per me rinasce la mia vita!
È laggiù, la ribalta della mia vita!” (Pag. 276).

Bisognerebbe leggere molte delle pagine che Tiziano Bisi dedica alla metropoli, a San Pietroburgo tenendo a portata di mano quel gran testo di Walter Benjamin che è “I ‘Passages’ di Parigi” (Einaudi 2010) dove è descritto il rapporto del flaneur con la metropoli, dove sono analizzati gli choc che la modernità provoca in lui fino a che questi choc non diventano un vero proprio vissuto, un Erleben.
Sarebbe utile confrontare i due testi perché, se è vero che molte delle riflessioni di Benjamin possono illuminare tante pagine di “Dalla Via Emilia a San Pietroburgo”, queste ultime possono gettare altra luce sul pensiero di Benjamin (e di Baudelaire) a proposito di metropoli, modernità, flaneur.
A conclusione di queste riflessioni sul libro di Tiziano Bisi, vorrei aggiungere una breve postilla su un punto che, a mio avviso, accresce il valore del libro.
Nel commentare ho sempre usato il termine “narratore”, Ma qual è il rapporto che intercorre tra narratore e autore, tra autobiografia e invenzione, premesso che né l’uno né l’altro hanno un intento pedagogico?
Nel corso della narrazione si instaura un rapporto proficuamente ambiguo tra i due, un rapporto che produce nel lettore una fascinazione profonda, un senso di sano straniamento.
E allora mi domando: di chi è la voce che narra?

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