Recensioni / Il libro che costruì un secolo

L’audacia di certi libri è pari soltanto al loro destino. Alcuni contengono guizzi, incendi d'intelligenza che albergano nel corpo a corpo con un'epoca. Accade di rado, ma quando succede creano uno spazio per il pensiero. È il caso del volume di un giovane ingegnere tedesco, interessato però all'architettura. Si chiama Sigfried Giedion: per simultaneità d'intenti vive l'euforica fine di un secolo, il Diciannovesimo, per celebrare poi la liturgia del nuovo, quel Ventesimo di cui è protagonista.
Era nato a Praga, nel 1888, per poi andare a laurearsi in ingegneria a Vienna; ma il convenzionale finisce qui, perché poi eccolo svolazzare sinuoso fra discipline solo apparentemente distanti — così almeno ai suoi occhi di uomo postumo, figlio d'una Mitteleuropa perduta. Eccolo perciò a Monaco di Baviera, attratto dai corsi di un geniale storico dell'arte svizzero, Heinrich Wölfflin, di cui diventerà allievo; per poi iscriversi al Bauhaus di Walter Gropius, che in qualità di docente seguirà nel sogno americano ad Harvard, dove dal 1938 formerà più d'una generazione di studiosi (tra i quali un giovane Bruno Zevi. Infine dal 1946 fino al 1968, data della sua morte, Giedion insegna a Zurigo alternando corsi al Mit di Boston, arrivando a essere considerato (consacrazione che di rado tocca in vita) come il più importante storico dell'architettura del Novecento.
Ma per spiegare questa reputazione occorre fare un salto indietro, precisamente al 1928: è in quest'anno che Giedion pubblicherà un libro destinato a fare storia. Il titolo è di quelli che scoraggiano persino i più arditi: Costruire in Francia. Costruire in ferro. Costruire in cemento - non proprio il massimo, ecco, per seduzione e forza evocativa. Eppure... Il filosofo Walter Benjamin lo scopre e lo trova elettrizzante: diverrà il suo libro preferito («solo ora sono in grado di controllare l'emozione che mi ha causato», scriverà a Giedion in una lettera nel febbraio del 1929) perché non soltanto vi scorge quel fantastico repertorio di costruzioni metalliche che gli servirà da metafora della condizione dell'intellettuale critico che lui intende essere, ma diverrà riferimento costante e fondamentale per il suo Parigi, capitale del XIX secolo. Il frontespizio e la grafica (è un libro in cui le molte immagini, disegni, fotografie e progetti giocano un ruolo essenziale) sono firmati e attribuiti a László Moholy-Nagy - un nome che risuona come un mito (curava allora la grafica di molti lavori del Bauhaus).

TUTTO DA GUARDARE
Solo oggi, finalmente, il libro vede la luce in italiano, grazie alle edizioni Quodlibet (che lo mandano in libreria con un'introduzione di Jean-Louis Cohen e ben curato da Emiliano De Vito), alle quali va fatto un plauso per la scelta di proporre in maniera impeccabilmente fedele l'impaginazione originale, i caratteri tipografici, le spaziature che avevano allora valore di corsivo - anche perché si tratta di un libro che va guardato prima che letto: la dimensione visiva è tale che come rivela giustamente Cohen sembra «una mostra montata in piano».
L'idea di Giedion è tutto sommato semplice: vuol mostrare come proprio in Francia si viene a determinare la "nuova architettura", quella che a partire dal 1800 e fino al 1927 (questo l'arco temporale indicato da Giedion) ha utilizzato il ferro e il cemento armato per le sue costruzioni e, così facendo, ha determinato un nuova forma - abitativa e strutturale - dell'edilizia. Per dimostrare questa tesi Giedion inizia a interrogare le radici teoriche dalle quali deriva il suo lavoro di storico, e cioè Jacob Burckhardt e Heinrich Wölfflin, e la lezione della scuola viennese di critica d'arte, in particolare Alois Riegl, fatte dialogare con i suoi amici architetti come Walter Gropius, Le Corbusier, Alvar Aalto, e i suoi riferimenti artistici, Picasso, Klee e Mirò.
Se alla fine Giedion arriva a postulare una nuova forma architettonica lo si deve in fondo alla spinta enorme, trasformatrice, dell'ingegneria e del mondo della tecnica. Gli ingegneri sono all'epoca una promessa di felicità; sono gli apostoli di quella nuova fede che è il progresso. Loro offrono le soluzioni tecniche affinché l'impossibile diventi possibile. Giedion fa parte della categoria, e non manca occasione per sottolinearne il ruolo - anche se non arriva ai livelli di entusiasmo per questa professione che al tempo manifestano intellettuali come Werner Sombart o Le Corbusier, secondo il quale addirittura «gli ingegneri sono sani e virili, attivi e utili, morali e gioiosi», al contrario degli architetti che sono «disillusi e oziosi, chiacchieroni e malinconici». Grazie agli ingegneri si sono costruiti viadotti, ponti, fabbriche, «magnifiche opere d'arte» che sarebbero state impossibili senza l'uso del cemento armato - inventato tre quarti di secolo prima (da un giardiniere francese di nome Joseph Monier, ma nessuno prima degli ingegneri ne vide il potenziale). E non solo secondo Giedion è proprio il cemento a formare la "base" della nuova architettura, ma è ciò che permette di introdurre il concetto di "costante nazionale": proprio perché l'architettura è legata alla struttura sociale di ogni Paese, in Francia si costruisce in maniera differente rispetto per esempio all'Olanda, agli Stati Uniti e così via.

PAROLA D'ORDINE: LEGGEREZZA
Ed è proprio in Francia - basterà pensare alla Tour Eiffel, o al pont transbordeur di Marsiglia che richiamerà l'avanguardia tedesca e non solo - che si realizza anche il perfetto utilizzo del ferro: se l'architettura stessa era legata alla pietra, ora sono le reti metalliche, gli spazi ariosi che creano i volumi nel vuoto delle costruzioni moderne a essere un nuovo modello, si crea «un unico grande spazio indivisibile in cui dominano rapporti e compenetrazioni al posto di delimitazioni». Leggerezza è la nuova parola d'ordine, capace di demolire la pesantezza tradizionale - e Giedion leggeva questa trasformazione con lo spirito dell'epoca che si interessava, sulla scia di Henri Bergson, al «generale processo della vita». E qui Giedion richiama ancora una volta il suo amico Le Corbusier, il primo capace di «sfruttare il potenziale dell'ossatura, creare i "cubi d'aria" ch'egli accatasta, i cui contorni si smaterializzano, "liberando la visione architettonica"». Quindi i nuovi materiali di costruzione - ferro e cemento armato - permettono all'architettura di liberarsi dalla monumentalità, dalla gravità, aprendo ogni costruzione alla "possibilità", all'eliminazione dei "dispotici confini" per cercare relazione e compenetrazione.
Un libro decisivo - ed è inutile l'esercizio degli storici dell'architettura che, negli ultimi decenni, rivelano mancanze, contraddizioni, errori: come scriveva Vittorio Gregotti ce ne sono, e sono molti, eppure nulla toglie che questo libro eserciti un «fascino proiettivo, di corresponsabile tentativo di mutare le condizioni dell'architettura e del suo rapporto con il mondo della vita». Il fatto è che nel suo stesso incedere il libro determina la dorsale della modernità. E non è poco.