Recensioni / La banalità dell’ (in)esistenza: “Un uomo che dorme” di Georges Perec

Qualche tempo fa circolava in rete un video dell’attrice e danzatrice statunitense Margaret Qualley tratto da una scena della serie Maid, che la vede protagonista: sulle note della canzone dei Pixies Where is my mind – riarrangiata al pianoforte senza voce -, la ragazza viene letteralmente risucchiata dal suo divano, fino a scomparire totalmente. Non è un atto involontario: è lei stessa a lasciarsi assorbire, quasi a voler scomparire del tutto.
È così che inizierei a descrivere il romanzo di Georges Perec Un uomo che dorme. È un libro, di fatto, senza trama. E forse l’unico modo per parlarne è attraverso citazioni testuali.
Il protagonista è un ragazzo di venticinque anni – uno studente squattrinato a Parigi – che una mattina, anziché alzarsi, vestirsi, uscire e andare a fare un esame di sociologia all’università, decide di restare sul divano e di non muoversi da lì, di non considerare più il mondo esterno, ma di incantarsi a guardare il labirinto di crepe sul soffitto. Tutto comincia da quel non-gesto, da quell’atto volutamente mancato.
Mettiamo che tu abbia venticinque anni, o giù di lì. Studi o lavori, ma sei in crisi. Sei talmente in crisi che tutto intorno a te scorre e non riesci a stare al passo, non riesci a seguire il flusso. Niente ti colpisce, e ogni gesto, azione, movimento intorno a te comincia a non avere più un senso. Tutto inizia a diventare indifferente, inconsistente, manchevole di un reale peso specifico.

Qualcosa si stava rompendo, qualcosa s’è rotto. Non ti senti più – come dire? – sorretto: qualcosa che ti sembrava, e ti sembra, t’avesse finora confortato, scaldato il cuore, restituito il sentimento della tua esistenza, quasi della tua stessa importanza, dandoti l’impressione di aderire al mondo e di esservi come immerso, comincia ora a venir meno.

Se hai letto questo passaggio e ti ci ritrovi, se sei in quella soglia d’età in cui tutti procedono, mentre tu sei in crisi, allora faresti bene a leggere Un uomo che dorme – scritto nel 1967 quando Perec aveva trent’anni -, ristampato da Quodlibet nel 2020 (dopo la prima edizione del 2009) nell’ottima traduzione italiana di Jean Talon e con la postfazione di Gianni Celati.
Mi scuso in anticipo se ti ho dato del tu, cara/o lettrice/lettore, ma voglio farti entrare nella narrazione, proprio come fa Perec, che utilizza sempre la seconda persona singolare. «Un’unica voce che continua a dire tu, disvelando l’illusorietà di un io personale – sottolinea, infatti, Giovanna Piazza in Squadernauti (22 settembre 2020) -, sebbene le vicende riguardino, in fondo, sempre un unico personaggio. Una voce narrante interna, eppure lontana, capace di non identificarsi con alcunché di particolare, ma solo con il flusso, con il tempo».

Stiamo parlando di una delle maggiori glorie della letteratura francese contemporanea. Nato e vissuto a Parigi, figlio di ebrei polacchi, Georges Perec (1936-1982) è venuto giovanissimo agli onori letterari con il suo romanzo d’esordio Le cose (1965), nel 1967 – anno di pubblicazione di Un homme qui dort – diventa membro dell’OuLiPo (acronimo dal francese Ouvroir de Littérature Potentielle, ovvero “officina di letteratura potenziale”), di cui faceva parte anche Italo Calvino: un gruppo (non ristretto) di scrittori e matematici di lingua francese fondato nel 1960 da Raymond Queneau, che mira a creare opere usando, tra le altre, la tecnica della scrittura vincolata detta anche a restrizione. È autore, tra gli altri, de La disparition (1969), W ou le souvenir d’enfance (1975), Je me souviens (1978); il suo romanzo più celebre, La vita istruzioni per l’uso (1978) è stato tradotto in tutto il mondo.
Nell’accingermi a leggere questo piccolo capolavoro, mi sono subito ricordata di un altro libro letto esattamente un anno fa, analogo nella tematica: Naif.Super del norvegese Erlend Loe (Iperborea, 2002).

La mia vita è strana ultimamente; è arrivata a un punto in cui ho perso interesse per tutto.

Prima o poi capita a chiunque di svegliarsi una mattina e trovare che la vita non abbia senso. E la pandemia di certo ha amplificato questo sentimento. Al protagonista di Naif.Super succede il giorno del suo venticinquesimo compleanno – una data scoglio (anche chi scrive ha venticinque anni) – il quale, dopo una sconfitta a croquet col fratello, di colpo si rende conto che niente più quadra. E così abbandona l’università, il lavoro saltuario al giornale, la stanza in affitto, vende i suoi scarsi beni e si rifugia nell’appartamento del fratello in viaggio di lavoro, dove passa le giornate sdraiato sul divano a pensare, per cercare di capire se è possibile recuperare la voglia e il senso del vivere.

E non si tratta solo dell’espressione del malessere della generazione di internet e della globalizzazione, spersa tra l’infinito numero di possibilità e conoscenze di cui non sa che farsene, la miriade di competenze che il mercato del lavoro ci chiede di continuo, i troppi stimoli connessi a un alto senso di inadeguatezza e incertezza verso il futuro, ma anche di una sostanziale rimessa in questione del mondo esistente. La banalità dell’esistere. Il protagonista comincia ad annotare tutto facendo elenchi – di quello che ha e che non ha, di quello di cui sa troppo, di quello che lo entusiasmava da piccolo, di quello che gli piace –, come formule incantatorie per ritrovare un contatto con se stesso, per verificare cos’è davvero il tempo.

Questa è la tua vita. Questi i tuoi averi. Puoi fare l’esatto inventario del tuo magro capitale, il preciso bilancio del tuo primo quarto di secolo. Hai venticinque anni e ventinove denti, tre camicie e otto calzini, qualche libro che non leggi più, qualche disco che non ascolti più. Non hai voglia di ricordarti di nient’altro, né della tua famiglia, né dei tuoi studi, né delle tue vacanze, né dei tuoi progetti. Hai viaggiato, e dei viaggi non ti resta nulla. Sei seduto e vuoi soltanto aspettare, aspettare solamente finché non ci sia più niente da aspettare: che venga la notte, che suonino le ore, che i giorni fuggano, che sfumino i ricordi.

Il tempo. Vero motore incalzante dell’opera di Perec. Ma anche il vero protagonista, che però è anche antagonista. Sempre Piazza evidenzia: «Una tensione silenziosa innerva potentemente le pagine di questo libro, quasi che il senso del racconto sia semplicemente nel ritmo, nel dispiegamento incessante della vita del protagonista.

Il tempo, che su tutto veglia, ha trovato tuo malgrado la soluzione. Il tempo, che conosce la risposta, ha continuato a scorrere.

La lotta contro la ciclicità del tempo, come direbbe Daniele Benati, parafrasando Flann o’Brien: «Con l’andar del tempo tutto ricomincia daccapo».
Tutto ricomincia, tutto comincia, tutto continua.
La vita, in fin dei conti, non è altro che un far trascorrere il tempo: Aspettare finché non ci sia più nulla da aspettare.
Quante volte mi è capitato di passare le giornate per inerzia, a chiedermi dove mi stesse portando ciò che stavo facendo, cosa mi aveva portato a essere quello che ero in quel momento. «C’è qualcosa che ha ancora senso fare? Tutto il nostro affanno dove ci porta?». Mi chiedevo. Frustrata e senza vie d’uscita, se non quella di attendere l’ora per mettermi a dormire e non pensare più. Ma poi, ecco che il mattino dopo mi svegliavo e ricominciava un altro giorno pressoché identico al precedente. E ho sempre pensato che la mia frustrazione dipendesse dal mio umore, dai miei problemi, dalla mia età, o più in generale dal mondo troppo grande e incomprensibile.

Questa fornace, questa graticola che chiamiamo vita, questi miliardi di intimazioni, moniti, esaltazioni e disperazioni, questo mare di obblighi a non finire, quest’eterna macchina per produrre, macinare, scialacquare, trionfare su ogni insidia e ricominciare da capo, questo dolce terrore che vuole regolare ogni giorno e ogni ora della tua esile esistenza.

E allora ho capito che un ruolo di primo piano lo giocava la città.
Da quando mi sono trasferita in una città più grande, il tempo ha iniziato a scorrere in maniera diversa. La mia presa sul mondo faticava a concretizzarsi. Avevo cominciato ad arrivare sempre in ritardo. Non riuscivo a gestire le mie giornate. Non avevo niente di particolare da fare, eppure il tempo non era mai abbastanza. E questo loop infinito aveva generato ancora più ritardo. Ma il tempo non si può arrestare. È una partita persa: puoi provare a ordinarlo, scegliendo di sottometterti al suo incedere incalzante. E così cominci a organizzarti per filo e per segno le cose da fare, le persone da vedere, le cose da comprare, gli obiettivi a breve e lungo termine. Ma non è così semplice. Qualcosa naturalmente ci sfugge.
Se non potevo farmi amico il tempo, almeno potevo tentare di rendermi amica la città. Allora ho iniziato a esplorarla, a passeggiare. A muovermi dentro di essa con la consapevolezza che la stavo attraversando: il mio spostarmi non era più un moto a luogo forzato da A a B.
Camminata interminabile, instancabile. Cammini come un uomo che porta valigie invisibili, cammini come un uomo che segue la propria ombra. […] Flâneur minuzioso, nictòbata perfetto, ectoplasma che un lenzuolo svolazzante farebbe passare erroneamente per un fantasma, che non spaventerebbe neanche dei bambini piccoli.
Il protagonista vaga per Parigi senza aprire bocca, senza desiderare più nulla, tra la folla dei Grands Boulevards, per i caffè, le panchine dei giardinetti, il lungosenna, i musei, i monumenti, sonnambulo turista in casa propria.

Vaghi qui e là, ma la folla non ti trascina più, la notte non ti protegge più. Cammini ancora, sempre, camminatore infaticabile, immortale. Cerchi, aspetti. Vai scarpinando nella città fossile, con l’intatta pietra bianca delle facciate restaurate, i bidoni della spazzatura pietrificati, le sedie ormai vuote dove un tempo si sedevano le portinaie; vai scarpinando nella città morta, i ponteggi abbandonati accanto agli edifici sventrati, i ponti portati via dalle nebbie e dalla pioggia. Città putrida, città ignobile, orrenda. Città triste, luci tristi nelle strade tristi, clown tristi nei music-hall, code tristi davanti a cinema tristi, mobili tristi in negozi tristi. Stazioni buie, caserme, capannoni. Le lugubri brasserie che si susseguono lungo i Grands Boulevards, le vetrine orribili. Città rumorosa o deserta, livida o isterica, città sventrata, saccheggiata, maculata, città irta di divieti, di sbarre, di inferriate, di serrature. La città-carnaio: gli stantii mercati coperti, le baraccopoli mascherate da grandi complessi urbani, i bassifondi nel cuore di Parigi, l’insopportabile orrore dei boulevard polizieschi: Haussmann, Magenta; Charonne.

A differenza della sottoscritta, che cercava uno stimolo per viversi la città senza l’affanno del tempo, l’uomo che dorme attraversa la città da solo. Si lascia avvolgere dalla notte, ma non si lascia scalfire dagli avvenimenti esterni. Passa da un cinema a un bistrot, da un viale alberato a un vicolo buio, senza che ciò desti in lui il minimo turbamento. Quasi un’anima infernale, un morto che cammina, un essere zoomorfo, non tanto diverso dai Dubliners di James Joyce, sentenziato dal climax: «Sei un pigro, un sonnambulo, un’ostrica».

Errare infinitamente, trovare il sonno e una certa pace del corpo: abbandono, sfinimento, deriva, assopimento. Sprofondi, ti lasci scivolare, molli: cercare il vuoto, fuggirlo, camminare, fermarti, sederti, metterti a tavola, appoggiarti sui gomiti, sdraiarti.

Una Parigi notturna, quella dei caffè aperti tutta la notte, che sembra essere fatta apposta per i gatti, i topi e i viandanti come lui.

Rimani in piedi, quasi immobile, con un gomito appoggiato al bancone di vetro, spessa lastra traslucida coi bordi arrotondati, fissata con bulloni di rame alla base in cemento, mezzo girato verso tre marinai che si accaniscono su un flipper. Bevi vino rosso o un espresso.

Rileggo questo passaggio e non posso non pensare a I nottambuli di Edward Hopper. Mi sono sempre chiesta a cosa mirasse quello sguardo tetro e fisso, quel senso di solitudine e di spettralità che aleggia nelle figure delle opere del grande pittore americano, e l’ho ritrovato qui, nell’uomo che dorme di Georges Perec.

Vaghi, ciondoli, vaghi. Cammini. Tutti i momenti si equivalgono, tutti gli spazi si somigliano. Non hai mai fretta, non ti perdi mai. […] Non vai neanche più a zonzo, perché i soli che possono andare a zonzo sono quelli che rubano il tempo di farlo, che si ingegnano per strappare minuti preziosi ai loro orari.

«Un uomo che dorme presenta i sintomi della depressione – dice Agnès Verlet, Magazine Littéraire – Il personaggio del libro di Perec sente in un primo momento “una specie di stanchezza”, “un disagio insidioso” che lo spinge a non svegliarsi, a non muoversi e a ridurre il suo universo alla contemplazione del soffitto. E lì, improvvisamente nota le crepe. Partendo da quella scoperta, l’uomo farà l’inventario di ciò che costituisce la sua vita». Gli elenchi di prima. Come a voler mettere un ordine al caos della vita moderna, oltre che odierna.
«Che cos’è, se non una specie di Hikikomori il protagonista di Un uomo che dorme, lo studente che cade in uno stato di torpore e d’indifferenza?» Suggeriva Marco Belpoliti nel 2016 (la Repubblica, 1 ottobre 2016). Una vita senza sorprese, al riparo da tutto.

Come un prigioniero, come un pazzo in cella. Come un topo che nel dedalo cerca una via di fuga, percorri Parigi in tutti i sensi. Come un affamato, come un messaggero latore di una lettera senza indirizzo.

«Sebbene respinga espressamente l’idea di ribellione, la sua è una ribellione contro il dover essere, contro l’imperativo dell’attività. L’uomo che dorme è un Robinson cittadino, che gode dello straniamento» (Riccardo De Gennaro, L’Unità – 12 aprile 2009). L’uomo che dorme è l’uomo del Novecento, è l’uomo dell’inazione, dello smarrimento, è Amleto.

La tua stanza è il centro del mondo. […] la tua stanza è la più bella delle isole deserte, e Parigi è un deserto che nessuno ha mai attraversato. Non hai bisogno di nient’altro che di questa pace, di questo sonno, di questo silenzio, di questo torpore. Che i giorni comincino e che i giorni finiscano, che il tempo scorra, che la bocca si chiuda, che i muscoli della nuca, della mascella, del mento si rilassino completamente, che soltanto il sollevarsi della cassa toracica e il battito del cuore testimonino ancora del tuo paziente restare in vita.

Atarassia, inazione. Come quei mesi nei quali non siamo stati da nessuna parte, quando è apparso quell’oscuro desiderio di ritirarsi dal mondo senza scomparire del tutto, tentando la strada dell’indifferenza. E ci potremmo stupire di quanto sia facile essere indifferenti alle cose, anche oggi, allontanandoci da quello che sta succedendo nel mondo proprio in questi giorni.
Alla vita nelle mansarde parigine, come quella descritta da Perec ne L’uomo che dorme, è dedicato il reportage di Carolina Germini scritto al tempo del primo lockdown, che raccoglie la storia sull’isolamento parigino di alcuni studenti italiani, i loro racconti dalla proprie chambre de bonne: https://tresequenze.com/2020/05/13/storie-di-un-isolamento-parigino/

La trappola: quest’illusione pericolosa di essere – come dire? – inespugnabile, di non offrire alcuna presa al mondo esterno, di scivolare sulle cose, intoccabile, gli occhi sbarrati che guardano avanti, tutto percependo, fino ai minimi particolari, ma nulla conservando.

Un uomo che dorme «non è né un romanzo né un’autobiografia, né un autoritratto né un’autofinzione: è tutte queste cose insieme», sempre per citare Verlet.
In un mondo che ci appare incomprensibile – e i fatti delle ultime settimane ne sono più che mai la prova – la letteratura ci viene in soccorso. Lo dice anche Nicola La Gioia in un bellissimo articolo intitolato “La realtà ci chiama per essere squarciata” (Review, 29 gennaio 2022). E allora Perec ci offre la sua solidarietà.
Un uomo che dorme è un libro da leggere e rileggere, sottolineando magari i passaggi più importanti, le frasi che parlano per noi. Tenerlo sul comodino per sfogliarlo qualora ne avvertissimo il bisogno. Magari proprio oggi.

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