Di una riproposta delle poesie
di Franco Scataglini si sentiva
da tempo necessità. Il poeta
anconitano è in assoluto uno
dei più stimati del tardo Novecento italiano, infatti. Già presente nei
Poeti dialettali del Novecento, l'autorevole antologia curata nel 1987 da Franco
Brevini per Einaudi, era poi approdato alle più importanti collane della nostra poesia, prima con La rosa, pubblicato da Einaudi nel 1992, quindi col suo ultimo libro, El sol, uscito postumo per Mondadori nel 1995 (il poeta, nato ad Ancona
nel 1930, era mancato l'anno prima). Eppure Scataglini non è conosciuto quanto
meriterebbe. Le sue raccolte di versi, tanto più le prime, sono introvabili; e poi la
morte precoce, ma anche la lontananza
dai centri del potere letterario non hanno
certo giovato a porre sotto i riflettori la
sua poesia, malgrado la fedeltà di alcuni
compagni di strada che si sono molto
adoperati per sostenerla.
A cura di Paolo Canettieri è uscito
adesso per Quodlibet un cospicuo volume che raccoglie, come dal titolo, Tutte
le poesie di Scataglini, sia in dialetto sia
in lingua (la prefazione è di Pier Vincenzo
Mengaldo). Il poeta, va ricordato, si era
riconosciuto esclusivamente nelle prime,
ripudiando di fatto la sua precedente
scrittura in italiano. E sono ovviamente le
poesie in dialetto a occupare gran parte
del volume. Tuttavia, la scelta d'includere
anche i versi in lingua (in sostanza il libretto Echi, del 1950, e qualche testo più
tardo) può essere sottoscritta, non fosse
altro perché permette di verificare lo
strepitoso salto di qualità che intercorre
tra lo Scataglini in lingua e quello in anconitano. Il primo non è niente più che
un poeta decoroso, uno dei tanti, insomma; il secondo è uno dei primissimi del
nostro secondo Novecento. Per sua stessa
ammissione per almeno un ventennio —
la prima raccolta in dialetto, E per un
frutto piace tutto un orto, è del 1973 — fece una fatica nera nello scrivere (e distruggere) versi in italiano, quella lingua
«frigida», come l'avrebbe definita, che
non arrivò mai a sentire davvero sua.
Il poeta che conosciamo nasce giusto a
cavallo tra la presa d'atto di quest'impossibilità e la scoperta, che in realtà è anche
un'invenzione, di un lingua più reattiva,
più ricca d'umori e di corporeità, d'infiltrazioni telluriche e di memoria, ma anche di desiderio e di proiezioni dell'immaginario, qual è stata per lui appunto
l'anconitano. Al riguardo Gianni D'Elia,
che all'inizio degli anni Ottanta assieme a
Massimo Raffaeli, a Francesco Scarabicchi e allo stesso Scataglini diede corpo a
un sodalizio critico-poetico, ha proposto
per tempo la formula di «neovolgare». In
sostanza, si trattava di aggirare l'impersonalità dell'italiano ormai burocratizzato e standardizzato ma anche, dal punto
di vista della poesia, le secche dell'epigonismo montaliano, dell'accademismo
neoavanguardista o dei tanti falsetti prosastici scanditi in versi, attraverso la riattivazione, se possibile, di un rapporto
non pregiudicato, ma fresco e pieno, con
uno dei tanti idiomi parlati in Italia. Proprio com'era stato per i volgari nel Duecento, il secolo delle origini romanze cui
Scataglini si rifaceva dichiaratamente. Di
qui la coesistenza, in queste poesie, di
letterario e di plebeo, di realismo e d'invenzione, di minuta osservazione quotidiana e di trasfigurazione mitica, di oralità e di scrittura (è una poesia metrica raffinatissima, questa: quartine rimate e
versi brevi, anzitutto settenari).
Ancona e i suoi luoghi, le figure cittadine, il mare, i vocali (i gabbiani), i tanti
giardineti, i ricordi dell'infanzia e dell'adolescenza, e poi i motivi pressoché
onnipresenti dell'amore, del desiderio,
del battere irresistibile della vita e della
mortalità che ne è il rovescio (alla moglie
Rosellina, in un delicatissimo intreccio
col tema della rosa, sono dedicate alcune
delle poesie più belle): c'è da scommettere che chi ancora non lo conosce difficilmente non ne rimarrà conquistato, o meglio sedotto, visto che questa poesia, che
è tutta un'estasi della lingua che dice e
conosce (e con maggiore evidenza nei
Momenti più dolenti), è straordinariamente sensuale e appunto seducente.
Il poeta ha rimarcato più volte come
per lui, figlio di un ambiente popolare,
nel ripudio dell'italiano fosse implicito
un valore d'opposizione politica e sociale
nei confronti della cosiddetta classe dominante, come si è dato del resto per vari
altri nostri poeti in dialetto. E questo può
colpire, perché di fatto l'anconitano è singolarmente vicino all'italiano. Tuttavia,
fatte salve queste ragioni, le cose vanno
spiegate diversamente. Ovvero non attraverso un'interpretazione storico-sociologica, ma per via di poesia. Quello che a
Scataglini non è riuscito in lingua, cioè di
reinventare e trasfigurare l'italiano in lingua poetica (altri hanno saputo farlo,
proprio negli stessi anni), gli è riuscito
perfettamente con il dialetto.
Di per sé, italiano o dialetto non precludono o garantiscono nulla. Semplicemente, è necessario un poeta per renderli vivi e farli cantare. Ecco, allora: «El pezetí de porto/ visto da casa mia/ grigio,
da mare morto,/ volse veni in poesia».