Recensioni / Maurizio Cattelan intervistatore

C’è tutto un periodo di Maurizio Cattelan che è ancora da ricostruire, anzi due. Lui li espunge dai suoi cataloghi e non ne parla, pare che rinneghi anche alcune delle opere del primissimo, che invece è così significativo e – certo, le speculazioni, ma, insomma, ora che è oggetto di studio, non dovrebbe temerle – peraltro interessante. Dell’altro, diciamo dal 1989 fin dentro la prima metà degli anni ’90, lui fa una selezione mirata, lasciando fuori tutta una serie di operazioni, ancor più che opere, di cui alcuni testimoni hanno raccontato qualche episodio, ma molti restano da riscoprire. Qualche amico dell’epoca, tra Bologna e Milano, ne ricorda qualcuno, come quelli ricordati da Gianluca Codeghini sul volume dedicato a Cattelan della collana “Riga” (a cura del sottoscritto insieme a Bianca Trevisan, Quodlibet 2019).

Cattelan, insieme ad altri artisti, Codeghini appunto e Maurizio Mercuri e Mirko Zandonà, si scambiavano di identità, improvvisavano interventi e intere mostre, con niente, non avendo mezzi a disposizione, ma anche per quell’atteggiamento di iper-understatement che li caratterizzava – un artista amico, Dario Bellini, li ha definiti “gli anni del cazzeggio”. Per esempio li si vede seduti nel cortile delle Serre di Rapolano, nel 1992, a non fare letteralmente niente, poi non fanno altro che accatastare le sedie: performance intitolata Doppiogioco, titolo indicativo della loro strategia, naturalmente.

E ancora di più due anni dopo: invitati ad esporre alla Galerie Henn di Maastricht in uno scambio di partecipazioni con l’allora spazio alternativo Viafarini, di Milano, Codeghini mi racconta che partirono in macchina senza aver ancora concordato niente e senza materiali o opere al seguito; discussione lungo tutto il viaggio per stabilire cosa fare, finché risolsero di entrare in macchina dentro la galleria, mentre un’altra artista, Federica Thiene, bloccava l’entrata con la sua jeep parcheggiata, suggerendo ai visitatori di non entrare! Cattelan, e anche gli altri, hanno mantenuto diversi aspetti di questo modo di fare e soprattutto di presentarsi, lui anzi ne ha fatto, rielaborato in chiave di volta in volta identificata al giullare, all’escapista, al carnevalesco, al bizzarro, al nevrotico, una delle chiavi della sua strategia artistica, ma che allora era ancora più sconcertante, più un’azione di disturbo, o di “depistaggio”, come la chiama Codeghini, che di efficacia iconica e comunicativa – l’immagine, la cultura visuale! Ha saputo farne “opere”, là dove erano azioni. D’altro canto è stata ed è la forza e la bravura di Cattelan, onore al merito.

Così Cattelan è sempre stato capace di fare le cose reinventandole, facendole proprie, integrandole cioè nel proprio modo e nei propri temi, mai abbandonandosi alla routine del formato tradizionale o prestabilito o alla pura illustrazione degli argomenti all’ordine del giorno. Così le esposizioni, così le pubblicazioni, le riviste che ha inventato, le mostre che ha ideato e curato, le interviste, la comunicazione, le apparizioni (o non apparizioni), le collaborazioni. Così, in occasione della mostra all’Hangar Bicocca che abbiamo già recensito, oltre a un catalogo costruito su di essa (Maurizio Cattelan. Breath Ghosts Blind, a cura di Roberta Tenconi e Vicente Todolì, Marsilio 2021, con un’intervista all’artista e testi di diversi autori), esce un volume ancora più poderoso per dimensione, in cui ha raccolto tutte le sue interviste, non a lui, quelle da intervistatore. Non le ho contate, sono sicuramente più di cento, il volume essendo di oltre 650 pagine. Si intitola Index (stessi curatori del catalogo, a cui si aggiunge Fiammetta Griccioli, stesso editore).

Sono vent’anni che Cattelan intervista personaggi di ogni ambito, artisti visivi soprattutto, ma anche scrittori, chef, architetti, designer, editori, personaggi del mondo della moda e dello spettacolo e del Web: “un mosaico”, dice la quarta di copertina, “un coro”, “un album di famiglia sui generis”, “un ritratto della cultura visiva degli ultimi decenni, così come della pratica di Maurizio Cattelan e della sua ricerca sull’identità, la società in cui viviamo e il potere delle immagini”.
Verissimo, ma la singolarità è evidentemente quella dell’intervistatore, perché è quell’artista, per le domande che fa, l’atteggiamento con cui si pone, che è appunto quello che stiamo cercando di descrivere. Innanzitutto l’idea è quella di tenere tutti sullo stesso piano, di trattarli tutti allo stesso modo, famosi e emergenti. Certo, lo può fare perché anche lui è famoso, ma perché lo è in quel modo, per cui tutti accettano le sue stranezze, inconcludenze, domande astruse, distraenti. Che cosa fai oggi? Cosa mangi? Hai paura? Hai mai provato questo…? eccetera, stile mondo dell’intrattenimento, alla Warhol, piuttosto che dell’arte e della cultura. Ma è la sua strategia, la sua rielaborazione: sembra che cazzeggi, in realtà mira al centro: si parla di come uno è e fa, non solo in arte ma come persona, nel quotidiano, nella vita, senza enfasi, senza proporre modelli, estetiche o morali. È quasi una tecnica psicanalitica, che finisce con l’indurre l’intervistato a dire la verità, il senso, i suoi, in modo trasversale – inter-vista, vedere attraverso, nel “tra” –, senza rendersene conto, o meglio vedendola emergere, vedendosi dirla, se così posso dire.

E così noi lettori dobbiamo a nostra volta leggere le interviste: frasi emergono dal parlottio, che si illuminano e condensano un pensiero e al tempo stesso, proprio perché si isolano dal flusso, rilucono anche di una luce, di un senso supplementare. Si prendano quelle estratte citate in terza e quarta di copertina: “Alcune strutture fondamentali, gigantesche della società verrebbero a crollare se mancassero alcuni piccoli elementi, come l’ordine alfabetico” (Boetti), “I have a skeptical view of acknowledge or official ‘history’, so I don’t think about that too much” (Kiwanga), “Well, I guess one of my main question is: ‘Can there be progress that is not technological progress?’” (Sehgal), ma anche “Berlin is terribly ugly, but we love it here” (Elmgreen & Deagset).
Naturalmente è anche divertente, ma non in senso dell’intrattenimento ma in quello depistante perché destinato – forse anche nel senso profondo che si riferisce al destino – al mondo dell’arte e della cultura, dove appunto questo modo di fare è sentito come disturbo. A proposito di destino, ci sono anche delle interviste a personaggi già scomparsi, come Marinetti, Bacon o Gnoli, messe insieme attraverso dichiarazioni realmente rilasciate in loro interviste. Ebbene, è nota la quantità di opere in cui Cattelan ha affrontato il tema della morte, qui inserito in questo modo più nascosto, non esplicito: è dunque da un lato un richiamo a quel tema, ma dall’altro come se indicasse che la morte stessa va affrontata come un’intervista, un’intervista sulla vita.

Anche questo rivela come Cattelan ha fatto, come in ogni sua rielaborazione dicevo, anche di questo libro un’“opera”, un oggetto cioè che si inserisce a pieno titolo nella sua poetica. Lo si vede anche dalla scelta di riprodurre le interviste così come sono apparse di volta in volta, sulle diverse riviste o pubblicazioni, in facsimile invece che in editing da libro. Poi, tutto il resto: in copertina sembra esserci l’elenco degli intervistati con relativo numero di pagina, ma a ben guardare risulta incompleto, all’interno le interviste non sono né in ordine alfabetico né cronologico di uscita né di pagina, né in qualche altro ordine (a meno che sia io a non coglierlo), ordini che si trovano solo alla fine del volume; la seconda di copertina è già l’inizio della prima intervista, mentre la terza e la quarta sono occupate o invase da citazioni a loro volta in ordine sparso. È dunque logico, cioè corrispondente che sia così: si intitola Index, ma indica un indice altro, disegna un ordine differente, un ordine, penso, che corrisponde a ciò che infine hanno in comune tutte queste persone-artisti, ovvero l’originalità in un senso particolare, cioè unita all’invenzione e a una certa irregolarità, una voglia di libertà, relativa ma determinante.