Poiché non c’è una definizione della vita informe, della vita non separata, bisogna fidarsi della filosofia quando afferma che le sfere della mistica, dell’erotica e dell’estetica compensano il nesso dell’esistenza primordiale provocata dalla sensibilità. Di questa archittettura mobile di una vita possibile, per quanto proiettata in un tempo a venire, Gianni Carchia, filosofo e critico dell’estetica, ha circoscritto il luogo nella domanda inevasa in questa modernità corrotta dalla ragione strumentale, – intorno alle forze ctonie, alle potenze creatrici e al ritorno dell’opera senza autore, del senso senza significato, dell’arte come forma di vita. Ma la filosofia come ricerca intorno all’ente separa i campi del sapere senza che a questi corrispondano campi di attività e momenti in cui la verità appare come tale.
Per questo motivo ancora, le indagini sull’amorfo, l’eccesso e il non saputo sono divenute in Occidente i luoghi della psiche e dei suoi dispositivi di esame e di cura: psicologia, psichiatria, psicoanalisi, con poderose
regole di ingaggio della soggettività. Di questo passo testimonia la storia delle scienze umane di cui si vede il fallimento in un recente lavoro di Antonella Moscati in forma di ricostruzione documentaria, Ellen West. Una vita indegna di essere vissuta, mentre il saggio analitico di Giovanni Stanghellini, Divina presenza, esperisce il punto di arrivo della crisi.
La trasformazione delle forme del pensiero nella modernità è da collocare nel momento in cui il nesso artificiale tra pensiero e prassi esclude l’oggetto, il movimento e la forma dell’informe. Considerato nel corso della storia della metafisica come nebulosa alle origini del tempo, come Kora, come emanazione creatrice o come divinità di Dio secondo il nome attribuitogli da Maestro Eckhart, l’informe di cui si può parlare non è altro che il contrario del logos, la non ragione del cogito, l’oscurità della coscienza che, in litigio perenne con il chiaro intelletto, la morale e l’identità, attentano all’equilibrio psichico, alla normalità e alla legge.
Se nelle varie genealogie della coscienza v’è una dialettica bloccata tra l’informe non presente e il cogito essente, tra ciò che precede e ciò che è, e tra passione bruciante e intelletto d’amore,
ad ogni guadagno di sapere della coscienza i nomi dell’informe sono catturati nella logica del mondo che prevede e sostiene conoscenza, amore e bellezza come opzioni tra cui scegliere. Così, se si è legati alla percezione sensibile dell’essere, l’estetica sarà lo stacco necessario tra la bellezza del cosmo e l’arte e la letteratura; se si è investiti dal respiro divino l’esperienza esclude un’erotica profana, a cui pure quel soffio risponde; se poi si è consumati da fiamma d’amore, ogni oggetto bello e sacro brucia e il fuoco corre avvampando senza fine.
Mentre è senz’altro più facile distinguere i luoghi dell’esperienza in cui l’informe è presente, arduo è esplorare il suo senso, cioè tentare una forma di vita informe che farà a meno delle distinzioni logiche, delle partizioni della psiche e della dialettica dell’arte. In un parola, del giudizio.
Un compito sovraumano allora si profila – disgregare la vita non catturata, cioè la stessa denotazione della forma di vita. E’ quanto si ricava per contrasto nel testo di Stanghellini, primo di una serie, “clinica dell’informe”, in cui sembra di poter cogliere un’esigenza della pratica della psiche nelle posizioni in cui si dà opera: le parole della mistica, dell’eros abissale e della scrittura giunta ai limiti dell’espressione e dell’immagine.
Michel Foucault riferendosi al “sonno antropologico” che ha investito le scienze umane dalla metà del XIX secolo indicava l’alternativa alla crisi della psicologia, della sociologia e dell’etnologia che hanno costituito i dispositivi di sapere-potere della modernità, nell’inversione dei compiti della psicoanalisi e dell’etnologia; la prima qualora risalisse all’origine della separazione di conscio e inconscio, la seconda
se fosse vòlta a formalizzare le strutture di dominio e di condivisione dei popoli “senza storia”.
Questo processo dei saperi non si è a tutt’oggi realizzato, mente si sono approfonditi i dispositivi di trasgressione, estetici e di superstizione che rafforzano la norma della vita amministrata. Che questa sia anche vita criminale, escludente e distruttutiva di affezioni poco importa al mondo comune disfatto in logiche di profitto e di aggressione. La rottura della coscienza, del senso e delle impressioni è superata, il benessere è divenuto la media enfatizzata della salute e della consapevolezza, il piacere la sua conseguenza ridotta a desiderio esaudito.
Così oggi l’informe è presente ovunque negli scarti e nelle deroghe, nelle servitù volontarie e nelle prese di posizione “progressiste” come nei discorsi reazionari, nella riduzione dei saperi ad apparati di controllo e detenzione, nelle esenzioni che discriminano, in ciò che è rimasto di forme di vita alternative rinchiuse in identità collettive.
La massima distinzione di una vita che si dice liberata e che invece è il vivere generico tipico della modernità, sembra oggi del tutto presa nello spazio isolato dell’identità irrinunciabile, di regole che vigono come leggi, di verità uniche, inscalfibili. L’informe divenuto forma di esistenza assume la proprietà
di un essere che oscilla tra l’idiozia e l’idiosincrasia.
Le forme che fanno storia e l’informe primordiale o post-storico, non sono dunque i poli dell’essere che si disputano la conoscenza possibile; sono invece intensità sensibili, transizioni e movimenti, durate ed eterogeneità in cui si “fa” l’esistenza.
Stanghellini mette in chiaro le tre istanze dell’incompreso di cui ancora adesso il discorso è celato: la storia dell’estasi e dell’ebbrezza, la storia del godimento in cui la morte ride, la storia di un pensiero che lacera chi lo sperimenta su di sè e lo arrischia nel mondo. Non vi si scopre un dualismo ma una tripartizione; non il movimento del negativo, tolto per giungere alla conoscenza vera, bensì un’ontologia contaminata, in frammenti, che rende conto di qualcosa che è vissuto in forma indefinita quanto al sapere e alla qualità.
Se è comunque possibile accedere ad un’estetica e ad un’erotica visionarie all’interno delle Scritture così come nella scrittura di Bataille, nel corpo senza organi di Deleuze e Guattari, negli atti di creazione misterici narrati da Pico della Mirandola e nel David di Michelangelo, ciò è possibile qualora si sottragga la genealogia della percezione alla dialettica che la imprigiona.
Bisognerebbe disarcionare l’informe dal suo stesso discorso e imprendere una storia fantastica del senso. Una storia però che non affondi nella separazione dei campi rispettivi della mistica, dell’estetica e dell’erotica, peraltro definiti e costituiti da singole, concrete esperienze oggi non riproducibili; e che non sia investita da una filosofia che faccia dell’informe un principio, o che lo attragga in una dialettica binaria;
sarebbe invece probabile una storia che recuperasse la sensibilità dal flusso della materia informe, costituendola come sapere dell’esistenza e che dichiarasse nella lingua delle percezioni la revoca dell’intenzionalità, della volontà di sapere e dell’agire strumentale.
Estremizziamo: da quel momento il pensiero diverrebbe limite dell’esperienza i cui estremi, la parola e il sentire, non moltiplicherebbero più la distanza tra sensibilità e ragione, ma, al contrario proverebbero l’informe nel molteplice dell’espressione.
Il golem, la fiamma oscura dello Zohar, la materia e le forme del Talmud, l’emanazione divina del Libro del confine, così come l’uomo di luce della mistica iranica narrato da Henri Corbin; le visioni mistiche, come le icòne degli artisti russi medievali studiate da Florenskij, raccontano un altro mondo, informe perché irrecuperabile al discorso. Perché “la nostra anima è circondata di visioni” scriveva Florenskij. Ed è questo evento che vale ricondurre alla propria origine, che è possibilità di accesso ad un luogo che il corpo apre nei tagli e nei sanguinamenti, nei bruciori e nel godimento, nelle attese e nelle ansie.
Il luogo di questa circoscrizione è il corpo, creato o generato o riprodotto, corporeità vissuta o dissolta; corpo proprio individuato, schematizzato o ricostruito. Perché il corpo come esperienza unica è il luogo a partire dal quale le forme di vita dell’ingegno e dell’amore, dell’arte e di Dio, della perversione e dell’infamia, dissolvono nell’estasi, – orgia del divino, passione divorante.
Il corpo all’acme della resistenza all’indistinto, al caos, al non sapere di sè e del mondo, al culmine dell’espressione, che sia mistica, erotica o estetica, scompare trascinato dalla sua stessa cura, decenza, consapevolezza, nell’immensa oscurità della definizione e dell’attribuzione, del giudizio e dell’inchiesta, del lavoro e del riposo.
In altri termini, una filosofia dell’informe non può che prender parte ai rapporti tra carne, corpo e corpo proprio. E questi rapporti nella genealogia della corporeità occidentale hanno conosciuto due grandi svolte. La prima nel XVI secolo quando la carne si stacca dal corpo e diviene campo discorsivo, d’intervento e di conoscenza della direzione spirituale. La seconda con la fenomenologia di Merleau-Ponty alla fine della seconda guerra mondiale, quando il corpo proprio si separa dal corpo e diviene lo spazio delle percezioni individuali secondo uno schema orientante.
La separazione del corpo dalla corporeità alla fine del Medioevo corrispose all’estensione del campo di attivazione delle discipline che Foucault nel corso del 1974-’75, Gli anormali, individua come quel nuovo sapere non più sostenuto dalla teologia e dalle pratiche penitenziali che si estende dal seminario alla scuola, alla caserma, al carcere, al manicomio.
Quindi, la svolta post-bellica del corpo proprio consistè nel produrre la nozione di un corpo di percezione a partire dall’esperienza della corporeità.
Già in Husserl l’essere nel mondo distingue l’esperienza dall’ambiente animale, mentre è il sensibile della percezione che determina la differenza tra l’astratta corporeità generica e il concreto orientamento spaziale che è conoscenza e cinestesi. Ma è in Merleau-Ponty che l’esperienza è resa a partire dallo schema corporeo che è la struttura a priori che orienta le direzioni di gesti, movimenti e fini. Il corpo che percepisce lo fa attraverso una “infrastruttura istintiva”. Il soggetto incarnato tramite la percezione coglie l’apparire del mondo, non la sua condizione di possibilità. Interiorità ed esteriorità si dissolvono. Il Fuori si fa largo senza esser compreso. Lo spazio geometrale, corrispettivo del corpo proprio, mentre organizza le percezioni in direzioni, scopre il fondo di pre-conoscenza in cui il corpo vive. L’immagine fenomenologica della corporeità realizza l’integrale dell’organismo in gesti, movimenti e comprensione. In essa l’informe suppone il massimo della forma; non v’è alcun resto, distanze e dispersioni sono escluse.
Così per la fenomenologia della percezione la sessualità è un’intenzionalità che la psicoanalisi esistenziale esprime come un eros o una libido che animano “un mondo originale grazie al quale si attribuisce un significato agli stimoli esterni e al rapporto del soggetto con il suo corpo oggettivo”. L’informe Eros diviene comprensione erotica “che non appartiene all’ordine dell’intelletto”, se con Merleau-Ponty “il desiderio comprende ciecamente collegando un corpo a un corpo”. Il corpo trasforma le idee in cose nella considerazione sessuale della vita ove l’informe diviene forma del piacere nell’orgasmo.
Vista da questa posizione l’opera di Bataille è l’inverso della psicoanalisi, la sua revoca nell’identità, rara e inevitabile, di piacere e desiderio. Residuo, “straccio”, scarto, è questo l’elemento che si percepisce, che non si dichiara, nè può essere oggetto di teoria.
D’altra parte una eventuale estetica dell’esistenza in cui l’informe come eros, come estasi e come opera d’arte conviene in una forma di vita, avrebbe da comunicare l’evento del linguaggio.
Nel capitolo finale di Le parole e le cose, Foucault dopo aver stanziato il “sonno antropologico” all’origine della finitudine, enunciava l’alternativa al sapere dell’uomo sull’uomo nella costituzione di due “contro-scienze”. La psicoanalisi che punta all’inconscio in maniera diretta e l’etnologia che indaga “gli altri” popoli facendo emergere le strutture formali di pensieri, riti e miti. Entrambe, qualora fossero state investite da una lingua pura che ne
avesse risolto l’ordine, avrebbero destituito il sapere identitario e storicista che domina il mondo.
Laddove infatti l’apriori storico della modernità, percorso dalla psicoanalisi nelle tre figure dell’essere, cioè la Legge, la Morte e il Desiderio, ha disegnato le forme stesse della finitudine; e ove la pratica etnologica, oggi al più integrata in territori metropolitani in rovina, si è trovata in rapporto alla storia interrompendo il lungo discorso “cronologico”, – là ove si pongono entrambe le coordinate di questo sapere possibile, l’opera di una lingua depurata dai dispositivi del sapere avrebbe potuto rompere il desiderio sotto la legge, annunciare la morte nella vita, disintegrare il nesso perverso di verità e conoscenza.
La trasvalutazione del sensibile e del significato, degli istinti e dell’organico, dell’ebbrezza e del gioco che non deve attendere la fine della storia per dare forma all’informe, avrebbe potuto essere opera di una lingua esercitata nella poesia e nella scrittura, nell’arte e nella musica.
I precedenti illustri del Ritorno nella lingua che si è lasciata alle spalle l’Uomo, sono state le acute espressioni dell’epoca moderna in Rilke, Kafka, Bataille, Artaud e Roussell, Wolfson, Carroll, Blanchot, annunciati da Nietzsche e da Hölderlin.
Questa genealogia fantastica è ancora in lotta con le forme se, con Foucault, “l’uomo si costituì quando il linguaggio, dopo essere stato interno alla rappresentazione e per così dire dissolto in questa, se ne liberò frammentandosi” e ha ricomposto la propria figura negli interstizi di un linguaggio frammentato.
Le forme di sapere che hanno alimentato la politica in Occidente hanno finito per ottundere il senso della ricerca sulla natura umana, considerata ora come cosa pensante, ora come io trascendentale, ora come coscienza in vista del sapere assoluto, ora come uomo del desiderio, la cui circoscrizione è delimitata dal lavoro, dai saperi strumentali e dalla produzione della norma.
L’articolarsi della forma di vita individuale, prioprietaria, esclusiva, ove l’informe ha il senso dell’eccesso e il piacere è distinto dal godimento in base al desiderio, bandisce l’anormale e l’incomprensibile.
È il caso di Ellen West, nome fittizio dato ad una donna anoressica il cui caso è stato ricostruito da Antonella Moscati nel giusto saggio Ellen West. Una vita indegna di essere vissuta.
Ludwig Binswanger, psicoanalista, elaborava agli inizi del ‘900 l’analisi esistenziale, una terapeutica di matrice freudiana fondata sull’analitica esistenziale di Heidegger, al fine di cogliere nella vita psichica la piega singolare del sintomo. La ragguardevole ontologia della psiche rinvenuta in questa pratica terapeutica confligge però aspramente con l’idea della cura, ove l’analista non registra lo stato di disagio o la patologia dei pazienti, ma “reagisce” agli stati affettivi, al pathos e alle resistenze che il rapporto terapeutico articola e dispone in gesti e parole.
La tragica videnda di Ellen inizia e finisce con quella “clinica del vuoto” che riconosce l’anoressia come disagio nella casistica dei nuovi sintomi del secolo che compaiono insieme a fobie, dipendenze e attacchi di panico.
Il vuoto fu ridotto dalla psichiatria dell’epoca a forma di degenerazione del “normale” comportamento, e nel caso di Ellen West il desiderio bulimico venne da Binswanger rubricato come degradante voracità animale.
L’indiretta istigazione al suicidio da parte degli psichiatri e del marito di Ellen fu l’effetto del mancato riconoscimento del disturbo alimentare della “paziente”, che, al contrario, resisté fino alla fine alla decisione di morire. Fino a quando gli psicoanalisti a consulto, tra cui era Alfred Hoche, autore di un pamphlet dal titolo Il permesso di annientare vite indegne di essere vissute, saggio che avrebbe ispirato il programma di eutanasia nazista,
non decretarono la “precoce destinazione di Ellen al suicidio”, la scrittrice continuò a lottare contro la sua natura divisa.
Questa lotta promosse un controsapere che è documentato dai testi di Ellen raccolti in volume nel 2007, Gedichte, Prosatexte, Tagebücher, Krankengeschichte, – testi che testimoniano un amore per la vita riverberato nei rari momenti felici che annullavano l’idea della fame e il rifiuto del cibo.
All’inizio del saggio Antonella Moscati scrive che la storia del suicidio di Ellen è “la storia di una sconfitta, l’esito infausto di una guerra…condotta in profonda solitudine, perché a tutti quelli che la circondano la sua patologia non appare tanto come un’alienazione mentale…ma piuttosto come una sorta
di ‘alienità mentale’, come qualcosa che è talmente estranea e incomprensibile da respingere e allontanare la cura e chi dovrebbe praticarla…”.
Binswanger pubblicò la prima volta il caso di Ellen West nel 1944-’45 e nel 1957 lo ripubblicò in una raccolta dal titolo Schizofrenia. I diari dei casi clinici redatti dallo psicoanalista
provano che la “cosiddetta Ellen West è stata esclusivamente una creatura e una creazione dell’analisi esistenziale…”.
Ellen, figlia di un imprenditore ebreo-tedeco, nasce negli Stati Uniti e nel 1897 e si trasferisce con la famiglia in Germania. Al ritorno da un viaggio in Sicilia “durante il quale ingrassa considerevolmente”, inizia una drastica cura dimagrante. Si manifestano i primi segni dell’anoressia. Comincia ad avere crolli psichici negli anni di università e dopo varie vicissitudini, – un rapporto complicato con uno studente di Monaco, la diagnosi di morbo di Basedow negli Stati Uniti, un’emorragia attribuita ad un aborto spontaneo – dal 1918 la patologia alimentare peggiora ed Ellen è ricoverata nella clinica del dottor Weidner; inizia poi una terapia analitica a Monaco con V.E. von Gebsattel, allievo di Emil Kraepelin. La terapia si interrompe perché l’analista ha una crisi religiosa che lo avvicina ad una setta. Ellen si accorge che la cura è insostenibile. Segue un’analisi con H. von Hattingberg e durante questo periodo tenta più volte il suicidio. Il 14 gennaio del 1921 Ellen arriva con il marito Karl alla clinica Bellevue di Kreüzlingen ove opera Binswanger che in quegli anni aveva in cura tra gli altri Abi Warburg.
Dopo il consulto con Hoche e con il famoso psichiatra svizzero Eugen Bleuler, Ellen viene dimessa il 30 marzo. Si suicida “con l’accordo più o meno tacito dei medici e con quello esplicito del marito, nella notte tra il 4 e il 5 aprile. Non aveva ancora compiuto trentaquattro anni”.
Nella ricostruzione degli eventi Antonella Moscati annota puntualmente le diverse diagnosi che i diversi psichiatri e psicoanalisti hanno redatto. Nessuno parla di anoressia o di disturbo alimentare: Gebsattel, depressione endogena e poi costituzione schizofrenica; Hattingberg, nevrosi ossessiva con tratti isterici; Kraepelin, melanconia acuta; von Romberg, depressione ciclotimica; Bleuler, nevrosi ossessiva e schizofrenia; Hoche, costituzione psicopatica; Binswanger, psicosi degenerativa e quindi psicosi schizofrenica.
Eppure l’anoressia-bulimia era stata identificata nella casistica medica da più di mezzo secolo in Francia e in Inghilterra. Il fatto che non fosse riconosciuta è da mettere in rapporto con la forma che il sapere della psiche aveva assunto dagli inizi del XIX secolo. Nella grande trasformazione che nella seconda metà dell’Ottocento aveva investito la psichiatria con la scoperta dell’inconscio e lo sviluppo dell’antropologia positivista, il sapere analitico assumeva il ruolo e la posizione di una scienza di avanguardia, la cui pratica sconvolgeva l’intero campo delle scienze umane.
Nel Corso del 1973-’74 sul potere psichiatrico, Michel Foucault indicava in questa trasformazione il momento in cui la psichiatria era arretrata, – “il momento in cui il potere della psichiatria si è visto imporre di forza la questione della verità di quanto nei sintomi veniva detto, o in ogni caso, quella del gioco della verità e della menzogna nei sintomi”.
D’altra parte la nascente psicoanalisi per accreditarsi come scienza e occupare il campo esteso della terapeutica in ambiti sempre più vasti, la famiglia, le relazioni affettive, sociali, di lavoro, ma anche in ambito educativo, giudiziario, manageriale, dovrà mostrare il gioco incrociato dell’istinto e della sessualità.
In particolare l’analisi esistenziale volendosi differenziare dall’antropologia e dall’analisi freudiana, rispondeva all’istanza della finitudine, e, dal tratto della teoria biologica di von Uexküll sul mondo-ambiente animale ricavava un’analogia generica tra mondi umani e ambienti animali.
Questa soglia filosofica dell’analisi affermava i movimenti dell’inconscio in rapporto all’essere nel mondo e all’orientamento del soggetto secondo direzioni di esistenza che ne avrebbero espresso natura e progetto. Da questo accento provenne un’ontologia della psiche che invece di ripensare il soggetto come evento e il mondo come l’insieme delle relazioni dell’essere-in situazione, rendeva “cose” i rapporti tra mondi ed esseri viventi.
Come sapere positivo l’analisi di Binswanger disponeva l’inconscio non solo nel passato remoto in cui si forma l’irrecuperabile, ma anche nell’avvenire. I segni di oreintamento più espliciti come i sogni, rinviano l’essere singolare alla propria curva di destino. La finitudine di cui l’analisi si incarica secondo l’essere-per-la-morte, è replicata nella memoria che può o meno assumerla come verità della vita personale.
Ma, come rivela Antonella Moscati, è proprio all’incrocio tra psicologia e ontologia che l’analisi esistenziale dispone una rigida lettura fenomenologica del destino. “La Daseinanalyse sottomette la malattia mentale a una normatività trascendente e costretta, che ne fa arretrare l’interpretazione a una fase che precede addirittura la psichiatria di Charcot e Janet”.
Di recente, riporta Moscati, è stato pubblicato un lungo manoscritto di Foucault che risale ai primi anni Cinquanta dedicato all’analisi di Binswanger, in cui la decisione di morire di Ellen West è ricondotta alla libertà di “non essere sè stessa” e insieme di “essere sè stessa”. La libertà che è il rovescio della terapia si compirebbe nella zona di indistinzione tra autenticità e inautenticità, nel residuo non simbolico di ogni esistenza in cui l’animale che si è, può o meno divenire il proprio corpo.
Binswanger sostenne che l’esistenza di Ellen fosse dominata dal passato che subordinava il futuro consegnandolo ad una prospettiva infinita e irrealizzabile. Per contro, i testi e il diario personale della scrittrice delimitano l’esteriorità dell’analisi a qualsiasi parola risulti irriducibile alla rigida griglia teorica che
sosteneva la necessità di un destino personale della paziente a cui la volontà di cura non poteva che accordarsi.
Ellen si impone il rifiuto del cibo per il terrore di ingrassare ed è assalita da una fame inestinguibile. La corporeità attratta nell’abisso della vorace animalità è per Binswanger degenerazione bestiale del corpo fisiologico il cui riverbero è l’unico tema di destino della paziente.
Dove dunque ha fallito l’analisi dell’ “informe”, del corpo organico che diviene terrore infinito? Nell’aver qualificato un unico tema come quell’esistenza che deve avere necessario compimento, – e di aver segnato con questa qualità negativa non solo il destino di una “paziente” ma di una scrittrice.
L’autoanalisi di Ellen avrebbe forse previsto un esito diverso: “Binswanger non fa con me alcuna psicoanalisi…nella melanconia, lui dice non serve proprio a niente. La sua terapia consiste nel venirmi a trovare 2 volte al giorno per farmi coraggio…”.
Di fronte alla precisa descrizione del suo stato, stonano le dichiarazioni di Binswanger sull’esito della patologia di Ellen che sarebbe stata scelta dalla curva di destino del proprio tema esistenziale. Per l’analista: “…l’esistenza, nel caso di E.W. era diventata matura per la sua morte, in altri termini, che la morte, quella morte, costituiva il necessario adempimento del senso della vita proprio di questa esistenza”.
Gli psichiatri a consulto convergono nel diagnosticare per Ellen, e forse non a Ellen che risulta così estranea al discorso dell’analista, l’inevitabilità della patologia, l’impossibilità di convivervi, l’inutilità della terapia.
Antonella Moscati rileva che il rapporto della paziente-autrice con l’analista è dell’ordine di un transfert mancato, bloccato o interrotto. Quella relazione esteriore e intima al contempo è il luogo “in cui parola e affetto si incontrano, creando una zona d’immanenza, al di qua forse di ogni dialettica tra coscienza e inconscio”. Se quella relazione non si propone, se la parola echeggia teorica e se il sentire non prova a sgretolare, erodendola nel tempo, l’inalterabilità granitica dell’idea fissa, l’ideale prevale sul corpo proprio e l’animalità è il terrore del divenire animale.
Se la terapia della parola assume senso nell’ascolto dell’inconscio, – là ove il discorso dell’analista non è interrotto dalla lingua dell’altro, in quel vuoto, monotono eco, si chiude la prospettiva della cura e il senso diviene prescrizione; amore e libertà, cioè l’informe in divenire, cedono alla violenza dell’argomento. E non c’è peggior “cattivo infinito” di quello che non si vuol sentire.
Nel frammento scritto nel 1920, La storia di una nevrosi, forse durante il ricovero nella clinica di Monaco e forse indirizzato a Hattingberg, Ellen riconosce ancora con lucidità il suo disagio: l’idea fissa della magrezza. “Io distinguo fra l’ ‘idea fissa’ e la rappresentazione coatta. L’idea fissa è il desiderio di essere magra…Per rappresentazione coatta intendo la coazione a dover pensare costantemente al cibo: o per fame…oppure quando sono sazia…e mi tormento continuamente con il pensiero: vorrei mangiare qualcosa ora? Che cosa vorrei mangiare? Niente? Si però poi oggi pomeriggio vorrò di nuovo mangiare qualcosa e stasera, e domani mattina…”.
La nozione di “idea fissa”, che ricorre spesso nei diari, era stata introdotta dallo psicologo e medico francese Pierre Janet nel volume del 1898 Névroses et idées fixes, ove è uno stato permanente della personalità che non si modifica per adattarsi all’ambiente; sue caratteristiche sono la persistenza e la mancanza di misura, che disturbano la “funzione del reale”. “La psicastenia è…il disturbo di tale funzione e si annuncia in un’ipertrofia e in una cristallizzazione dell’idea che finisce per distruggere la capacità di ‘entrare in rapporto con la realtà…’ ”.
Nell’autunno del 1919
Ellen scrive: “ebbi paura per la prima volta. Soltanto una paura indeterminata e silente, in verità era piuttosto un certo sentore di essere finita al servizio di una potenza perturbante che minacciava di distruggere la mia vita”. Quando giunse all’analisi con Gebsattel “fu una delusione. Analizzavo con l’intelletto e tutto rimaneva teoria”. Moscati nota che la paziente-autrice identificava l’idea fissa come desiderio situato in una zona indeterminata al di là del vero e del falso; una superfice in cui l’idea fissa occorre nella forma negativa del desiderio
– “non diventare grassa”.
Il senso dell’affermazione “voglio essere magra” o “voglio rimanere magra” risulta così affievolito dalla potenza indeterminate del desiderio smisurato. “Non ingrassare” è talmente indeterminato da subordinare a sè tutte le forme possibili dell’essere magra. Il desiderio di magrezza di Ellen West, che si esprime nel desiderio di non essere grassa, “la consegna all’incertezza e alla fluttuazione di quella formulazione, e, dunque alla paura continua d’ingrassare”.
Dunque il desiderio negativo, informe, non indica mancanza rispetto alla pienezza dell’essere esaudito, bensì l’ambivalenza dell’idea fissa. L’idea fissa è l’effetto dell’instabilità della negazione nell’inconscio che genera permeabilità e oscillazione fra due desideri opposti. Al contrario di quanto sostenne Freud, che l’inconscio non concepisce negazione, il desiderio ossessivo organizzato nell’idea fissa sarebbe allora espressione di una negazione instabile, fluttuante.
Il desiderio negativo non sarebbe mancanza ma presenza, e, nella forma indeterminata che assume l’idea fissa, sarebbe un’affermazione replicata nel suo contrario. Ad esempio, la paura di morire “non significa in alcun modo che chi la prova desideri o voglia morire…ma che il desiderio di vivere potrebbe essere presente nel suo inconscio come desiderio di non morire, oscillando perciò continuamente fra il desiderio di non morire e quello di morire, come se il non fosse stampato nell’inconscio a caratteri sfocati e incerti”.
Fallimento del discorso dell’analista? Sì, nel senso che il suo discorso non ha sovvertito il sapere del “padrone”, tantomeno quello dell’ “isterica”.
Jacques Lacan nel Seminario XVII indicherà nel rovescio della psicoanalisi la trasformazione dei discorsi che dovrebbero completare il ciclo delle figure del padrone, dell’analista, dell’ “isterica” e del sapere accademico, cioè del mondo formato dal capitalismo.
Il sapere e non il conoscere, è infatti questione del rapporto tra poteri magistrali del discorso, i significanti sovrani che sono i sostituti del soggetto. I saperi che hanno la forma dell’ “io” sono rivelati dal non-sapere dell’inconscio, in posizione di servitù nella costituzione del soggetto.
Per Lacan “ il servo sa molte cose, ma soprattutto sa quel che vuole il padrone, anche se questi non lo sa…”. Nella società dei consumi (siamo nel 1969 e Lacan subisce la contestazione) sarebbe il “materiale umano” – nella lingua del padrone, a poter produrre il segno di verità che è l’ “altro”, l’isterica, il folle, il marginale, lo studente, l’operaio; perché è intorno alla verità che si gioca il rovescio; e poiché la verità è inseparabile dagli effetti di linguaggio, è a partire dalla differenza tra il vero e la verità che l’inconscio emerge come parola che irrompe, che rompe il regime del discorso presunto vero del padrone, della conoscenza e dell’analisi.
D’altra parte l’inconscio “per vincere” deve fallire come discorso, ma ciò non implica la messa a morte del soggetto, bensì la mancata restituzione alla sua totalità primordiale, comunque già dimezzata.
La storia dicibile, per Ellen quella dell’ideale regolativo e assoluto al punto da indurre il proprio corpo a disfarsi della corporeità, vince la lingua incompresa dell’inconscio. L’analista tace l’altra parte del discorso che la parola avrebbe mancato inducendo per via indiretta il passaggio all’atto di Ellen. L’analista, non-facendo, ha indotto l’irresistibile potere della corporeità a trasformarsi in potere di morte. Ellen si accorge che nessuna contestazione, nessuna sovversione, nessun rovescio del discorso da parte di un altro discorso del corpo è possibile.
Nell’introduzione al saggio di Binswanger, Sogno ed esistenza, Foucault individuava nell’analisi esistenziale il momento della storia della psiche in cui l’uomo viene colto nella sua costituzione ontologica secondo le coordinate che lo orientano nel mondo. L’essere uomo prevale sia sulla conoscenza compresa nella storia naturale, sia nel campo della psicologia laddove emerge nell’autonomia delle funzioni psichiche. Ma questa presa di posizione, scriveva Foucault, è possibile solo a-posteriori, cioè a partire dal momento in cui il sapere dell’uomo sull’uomo si costituisce come tale, nel momento in cui l’uomo è definito come “allotropo empirico-trascendentale” e assume la forma del sapere psichico di cui è oggetto.
Nel corso Gli anormali, in un breve excursus sulla storia della verità sempre da fare, Foucault opponeva alla verità-conoscenza, alla verità totalizzante delle scienze, la verità-evento, la verità-battito, la verità discontinua che irrompe e disperde, – verità che nella storia dell’Occidente è perduta, sotterrata dalla verità del dominio.
L’inconscio-battito, l’inconscio che irrompe, l’informe che rompe la coscienza, l’inconscio che parla non l’individuo ma la dispersione, restituisce alla storia della follia la conoscenza dell’essere, e alla voce la diserzione dell’ io nella scrittura, nel pensiero, nell’essere comune. Un controsapere è investito dalla sua stessa verità. Per questo a maggior ragione la lotta di Ellen è quella di Antonella, Paolo, Madame Edwarda, un odradek e l’uomo dei lupi. Un divenire delle potenze corporee che ululano la vita accusando la morte.