Ebri e cristiani, nel titolo del libro, ricorda che l’identità cristiana comprende quella
ebraica come alterità, e che su questa polarità fondativa dell'antropologia cristiana, inclusiva ed esclusiva della figura dell'ebreo, si articolano le diverse temporalità della storia cristiana, dal primo giorno della Genesi all’ultimo del Giudizio. Gli affreschi sistini permettono
d seguire ogni passaggio da una temporalità all'altra, di capire come si raccordano. Ma
qualcosa di diverso accade nel ciclo degli Antenati, il ciclo che occupa le vele e le lunette
della volta, su cui Careri concentra la sua attenzione.
Careri definisce la temporalità del ciclo come una sacca temporale, residua del tempo
storico: che non è parte della storia ebraica e che non può esserlo di quella cristiana, Gli
Antenati sono gli ebrei esclusi dalla nuova età cristiana, condannati ad abitare uno spazio
vuoto, senza tempo. Di questa condizione è espressione il loro torpore, la lenta fatica della
loro vita quotidiana, svuotata di un senso che non sia quello immediato delle azioni che
compiono. Sono per questa ragione ritratti nello svolgimento di quasi automatiche attività
quotidiane legate al lavoro, alle mansioni domestiche, alla cura dei figli, sospesi nel tempo
di un'azione fine a sé stessa che sembra ripetersi all'infinito. Gli antenati sono anche
espressione di una modalità di trasmissione della storia di padre in figlio, attraverso la parentela tribale ed etnica del tempo antico, che ha anch'essa esaurito la sua funzione di
fronte ai nuovo modello cristiano della parentela spirituale. L’assorbimento degli Antenati
all'interno di uno spazio e tempo disgiunti dalla storia cristiana si esprime anche attraverso
un diverso dispositivo visivo e di messa in scena, in cui convergono secondo Careri quel
"realismo domestico" che la critica ha talvolta attribuito al ciclo e il concetto di anti-teatralità messo a punto da Michael Fried. Gli Antenati non si mostrano all'osservatore, sembrano ignorare il fatto di essere guardati.
Lo sguardo di Careri abbraccia l'intera decorazione (le storie sulle pareti - iniziate da
Pietro Perugino e completate dai pittori fiorentini mandati da Lorenzo il Magnifico, a cui si
aggiunse Luca Signorelli -; le figure della volta che Michelangelo eseguì oltre venti anni
dopo, tra il 1506 e il 1508; il Giudizio sulla parete dell'altare, che Michelangelo dipinse trenta anni dopo ancora, tra il 1536 e il 1541). È una veduta sincronica dell'insieme, che astrae
la decorazione dal tempo storico, ponendo in secondo piano le fasi puntuali della sua produzione. Sia chiaro che la struttura tipoiogica della decorazione e altri aspetti che la collegano alla storia cristiana sono dati acquisiti negli studi sulla Sistina. Ma mai prima d'ora si
era riflettuto, come in questo libro, sulla centralità della struttura temporale come chiave di
lettura dell'intera decorazione, sul fatto che essa si dispiega agli occhi dell'osservatore
come una macchina del tempo cristiano.
Ora, la storia cristiana, comprendendo e modulando diverse temporalità, inclusa la fine
del tempo, rimanda a un'idea della storia affatto diversa da quella che dall'Ottocento innanzi informa le scienze storiche, e dunque anche la storia dell'arte, che legge il passato e
le sue testimonianze come un'omogenea successione di eventi. È vero che questa idea
della storia è stata messa in discussione soprattutto nelle ultime decadi. Rimane tuttavia
dominante nelle scienze storiche l'idea che il prima e il dopo si susseguano neutralmente
e sempre in questo ordine e, soprattutto - punto centrale di differenza con la storia cristiana - che si susseguano all'infinito. Su questa discronia tra la storia dell'arte e la storia
cristiana, sul valore di una diegesi che necessariamente rimanda a una temporalità diversa rispetto a quella del racconto, il libro invita a interrogarsi.
Carceri collega la decorazione della Sistina a una storia figurata dell'identità cristiana,
che comprende quella ebraica come la sua alterità, in un arco temporale di lunga durata in
cui tutto è simultaneo e riproduce un ordine simultaneo. È un'iconologia che associa forme simili secondo il modello della scholarship warburghiana. Come Warburg, Careri pone
sullo stesso piano opere d'arte, riti, cerimonie e testimonianze scritte, al fine di ravvivare le
immagini che osserva. Ed è certo un voluto riconoscimento del debito con Warburg, che
aveva condensato il suo metodo in una serie di collezioni di immagini, che nominò l'Atlante
della memoria, la decisione di Careri di mostrare alcune delle immagini associate agli Antenati in due pagine e di intitolare questa raccolta Atiante degli Antenati di Cristo.
Nel suo Atlante, che dobbiamo considerare comprensivo di tutte le immagini discusse
nel libro, Careri rileva ad esempio una somiglianza significativa tra le figure femminili degli
Antenati con le braccia conserte e la cosiddetta Dacia Cesi, un bassorilievo romano, celebre anche al tempo di Michelangelo, che rappresenta l'afflizione del barbaro vinto. L'ebreo
è infatti una figura dell'alterità per i cristiani così come lo era quella del barbaro per gli antichi romani. E ancora, di fronte alla lunetta dela Sistina che mostra una donna che culla un bambino, che lo allatta e accudisce, mentre un padre, troppo vecchio per la donna, assiste
alla scena, Careri chiama in causa l'iconografia della Madonna col Bambino e san Giuseppe. Cos'è infatti la Sacra Famiglia se non la rappresentazione della nuova Famiglia in contrasto con l'antica genealogia carnale degli Antenati, che il vecchio Giuseppe, padre adottivo e non naturale di Cristo, rappresenta?
Sul valore epistemologico dell'Atlante di Careri il lettore può riflettere lungamente.
Mi sembra tuttavia indisputabile che questo modo di considerare la decorazione, come
parte di un'ampia costellazione formale e semantica, che si dispiega simultaneamente di
fronte agli occhi dell'osservatore, rispecchi fedelmente il modo in cui la decorazione sollecita la nostra immaginazione. Per la necessità antropologica di definire l'identità attraverso l'alterità che lega gli ebrei ai cristiani è naturale per noi identificarci principalmente con
gli Antenati (nonostante il loro disinteresse per noi che li osserviamo). La loro inerzia è l'inerzia "de' tempi nostri" (con questa espressione Savonarola collegava le immagini della
Bibbia ai suoi tempi), e dunque anche dei tempi di chi, osservando la Sistina, vede dispiegarsi di fronte a sé il principio e la fine della storia cristiana.