La vita sessuale di Guglielmo Sputacchiera,
di Alberto Ravasio, è
un libro d'esordio inquietante e al tempo stesso comico. Anticipiamo qualche notizia sull'ambiente e sulla vita
di Guglielmo Sputacchiera: nasce in un tipico «paesello stercoso» dove tutto è «immune
dal bacillo della cultura» e tutto è «eternamente mezzadro
nella calotta cranica», un ambiente in cui l'unica cosa che si
ripete di continuo, e quasi per
virtù spontanea, è il circolo gastrico chiuso che consiste nella
sequenza lavoro-casa-chiesa.
Lì Guglielmo cresce in una famiglia cristiana che in realtà si
rivela essere la solita gabbia di
matti, dove i due genitori da
sempre s'accusano d'essersi rovinati a vicenda la vita, ma continuano a portare avanti la loro
unione non per amore ma per
un misto di senso del dovere e
di difficoltà di immaginare
qualcos'altro. Lui, «come un
moscone morto tra due palmi,
era la sfortunata vittima del loro incidente genitale». In questo ambiente Sputacchiera ha
avuto l'occasione fin dall'inizio
di fallire ripetutamente, sia nella vita sia con le donne, fallendo a partire dall'asilo e fino a arrivare all'università, avendoci
fallito in mezzo anche tutto il ciclo scolastico. A questo punto,
prendendo atto dei suoi fallimenti e dei suoi disgusti, dopo
che ha fallito l'ennesimo tentativo ai trovarsi una ragazza,
Sputacchiera ancora vergine si
mette in autoarresto domiciliare nella sua stanza, della quale
non apre più neanche gli scuri
delle finestre, e potrebbe forse
capitargli di pensare al suicidio, se non fosse che un bel momento, tra una serie distopica
e un po' di complottismo, gli appare il porno e gli squaderna
davanti le infinite galassie
dell'universo femminile: «a
Sputacchiera, che era stato
dentro una vulva solo nel ruolo
di spermatozoo, il Porno piaceva moltissimo». L'autoarresto
immediatamente si evolve e
prende quindi la piega, molto
più estatica e monastica,
dell'autoesilio del pornonauta
che attraversa un infinito universo pornogonico. Per il resto, «a trent'anni, disoccupato
sociale e sessuale, Guglielmo
Sputacchiera viveva ancora,
da sempre e per sempre, coi
suoi» e i suoi, mantenendosi
nel silenzio, gli passavano il cibume tre volte al giorno, lo davano per quasi morto, e speravano nell'intervento della Provvidenza manzoniana.
Abbiamo qui ricostruito un
po' del contesto in cui Guglielmo Sputacchiera si era mosso
nei suoi primi trent'anni. Ma come inizia il romanzo? La storia,
in realtà, prende l'avvio da una
strana metamorfosi e inizia così: «Un mattino d'agosto Guglielmo Sputacchiera si svegliò
col muso sprofondato in un bel
paio di seni: i suoi. In otto ore di
sonno s'era trasformato in donna, creatura a lui sconosciutissima, che in trent'anni di vita non
era quasi mai riuscito ad avvicinare, non dico per le acrobazie
pubiche, ma anche solo per le informazioni stradali».
Prigioniero di queste immediate e veloci nuove percezioni di sé, in cerca di un orientamento certo, Sputacchiera si
concentra su un «dettaglio decisivo, qualcosa che per un maschio è ben più di un organo,
ben più di un amico, ma rappresenta l'ago vibrante della
sua bussola vitale». Ma il triste
risultato della ricerca è indubitabilmente questo: aveva perso il pene. Controlla e non trova e ricontrolla e non ritrova,
furiosamente. Si dispera. Angosciato, mentre ancora continua a cercarselo, senza trovarselo, coi suoi vestiti che gli cascano, essendo diventati troppo larghi per il suo nuovo corpo, nel riflesso del vetro della
finestra, Sputacchiera effettua la sua terribile scoperta:
aveva «la vulva, l'assenza onnipresente, il buco convesso
che riempie gli spazi vuoti
dell'esistenza. Con la carriera
sessuale dello spermatozoo finito nella carta igienica, Sputacchiera la vulva non l'aveva
mai vista dal vivo, ma l'aveva
seguita, da pornodipendente,
nelle sue manifestazioni vitali». In questo stato, tra terrore
e un resto di incredulità, Sputacchiera si rintana in bagno,
soprattutto per non incontrare suo padre, ammaccalamiere arricchito, a cui non saprebbe come spiegare quello che
gli è appena successo. La domanda disperata che Sputacchiera rivolge al soffitto del bagno è: «Dio mio! Dio mio che
non esisti! Perché mi hai transessualizzato?». Ma la risposta non arriva. Cosa poteva essere successo?
Mentre Sputacchiera sta
pensando a tutto questo, ecco
che due nocche familiari bussano alla porta, è la madre, «bipolare monoteista», che gli dice
«Apri, tesoro ... tutto a posto?
Che combini lì dentro? Papà è
appena uscito. Vuoi che ti prepari la colazione?». Sputacchiera resta chiuso in bagno,
avanzando scuse, fino a quando, verso sera, il rumore della
macchina del padre che torna
dal lavoro non lo obbliga a fuggire. Vestito come una donna
mussulmana, lievemente squilibrato nei movimenti dalle
sue nuove tette, a cui non si è
ancora abituato, riaprendo dopo anni la finestra della sua
stanza, la scavalca e si dirige
verso un autobus. «Dopo anni
di esilio pornonautico, Sputacchiera fronteggiava di nuovo il
suo paesaccio natio: dieci chilometri e cinquecento anni di
analfabetismo lo circondavano, minacciosi».
Poi seguiranno tentativi di
fughe e tentativi di ritorni, visite mediche e incontri. E quando, in un veloce passaggio da
casa, la madre dirà a Sputacchiera, che ormai sta diventando Carmela Pene, di andarsene per salvarsi, e Carmela dirà
alla madre che non sa se è pronta, la madre le dirà che non importa, perché nessuno è mai
pronto a un cazzo.