Recensioni / Walser: il nulla e il silenzio sotto l'idillio

Ci sono molte belle definizioni che circoscrivono la vicenda umana e poetica di Robert Walser, il grande scrittore svizzero di lingua tedesca nato nel 1878 a Bienne nella zona di Berna e morto pressoché dimenticato nel 1956, dopo ventitré anni trascorsi in una clinica per malattie nervose di Herisau, nella Svizzera orientale, senza più scrivere nulla.
Robert Musil, ad esempio, riteneva (esagerando, ma non senza una dose di verità) che Kafka fosse semplicemente «un caso particolare del tipo Walser», mentre Walter Benj amin, che fu il primo a posizionare la sua opera all'interno di un più ampio contesto storico e culturale, si espresse in questi termini - molto penetranti - a proposito dei personaggi dei suoi romanzi e dei cosiddetti "pezzi in prosa": «Hanno dietro di sé la follia, e per questo rimangono di una superficialità così lacerante, così completamente inumana, così impassibile. Se volessimo descrivere con una parola quello che essi hanno di felice e perturbante, potremmo dire che sono tutti "guariti"».

II rifiuto delle finzioni
Mala definizione più bella, non solo perché espressione di un comune sentire e di una profonda affinità elettiva, ma anche perché maggiormente riconducibile, almeno in linea teorica, alla più recente e drammatica attualità, è quella di Hermann Hesse: «Se Walser avesse centomila lettori, il mondo sarebbe migliore; se appartenesse agli "spiriti guida", non ci sarebbero più guerre».
Potrà sembrare un paradosso, ma è la definizione più bella e indovinata proprio perché è stata totalmente smentita dai fatti: Walser non è mai stato uno "spirito guida", non ha mai scritto con l'intento di cambiare i destini di questo basso mondo, e poi è stato scoperto dopo la morte, quando le sue opere, tradotte in molte lingue, hanno sicuramente raggiunto centomila lettori, ma ciò non è servito a evitare guerre e distruzioni.
Il giudizio di Hesse individua inoltre il nucleo della verità umana e poetica di Walser, che consiste nel rifiuto di quella che Carlo Michelstaedter, pressappoco negli stessi anni, aveva definito la "rettorica", vale a dire tutto l'insieme di finzioni, menzogne e ipocrisie (la cosiddetta "comunella dei malvagi", come la definito stesso Michelstaedter, mentre Walser utilizzò l'ironica definizione «una specie di uomini molto istruiti») che regola i traffici sociali.
E che il vero Walser sia questo, e non la figurina stilizzata, mitizzata e un po' banalizzata dal canone letterario più recente, che pone l'accento sullo scrittore randagio e in perenne fuga dalla realtà, lo si nota leggendo "Una cena elegante", la primissima e pionieristica versione italiana di una scelta di suoi scritti, tradotti da Aloisio Rendi nel lontanissimo 1961 per un volume dell'editore Lerici e più volte ripresi dall'editore Quodlibet di Macerata, che adesso li ripropone meritoriamente anche nella neonata collana "Quodlibet Storie".
Gli scritti sono tratti dai "Saggi" e dai "Poemetti in prosa", apparsi rispettivamente nel 1913 e nel 1914, in una delle fasi più felici della produzione di Walser, che mai come in queste pagine - forse nemmeno nei tre romanzi "I fratelli Tanner", "L'assistente" e "Jakob von Gunten", pur bellissimi - è riuscito a restituire il proprio sottile disagio in figurazioni artistiche semplicemente perfette, nascondendosi e insieme svelandosi in autentici alterego come gli impiegati Germer e Helbling, nel viandante Oscar, in grandi poeti del passato come Brentano, in figure della tradizione come Pierrot e perfino negli animali, come il cavallo del brano "Il cavallo e la donna".

Negli abissi del quotidiano
In queste microstorie tutti i particolari sembrano al proprio posto, ma l'apparenza è fuorviante, perché l'idillio è solcato da crepe e fenditure dalle quali è possibile gettare lo sguardo in profondità non propriamente ospitali. Quella di Walser è insomma una normalissima e insieme abissale quotidianità, popolata di individui che si trovano ai margini della compagine sociale, esistenze alla deriva in una realtà per così dire cordialmente disumana, che non offre vie d'uscita, nessuna speranza, nessun respiro, solo una ferialità senza scampo. Il tutto, però, è sussurrato più che urlato, reso con piccoli tocchi e accordi in minore, ma con un'eco che risuona tanto più profonda e penetrante e si spegne infine in un silenzio assordante, come nelle righe conclusive dello scritto intitolato "Un sogno": «Di nessuno, nessuno tra questi uomini incomprensibili potevo fidarmi. Ognuno aveva la sua occupazione, severa, ristretta, stupida, ben delimitata, e al di là di essa guardava senza vedere, con cupa bestialità, come in un vuoto senza fine. Senza pietà per sé stessi, non conoscevano neanche pietà verso un altro. Morti come erano, non presupponevano che dei morti. Finalmente mi svegliai da questo mondo senza speranze. Com'ero felice che era stato tutto un sogno!».

Giostra di apparenze
Ecco il motivo per cui con Walser bisogna stare sempre attenti: perché tutto è diverso da come sembra, un po' come in Kafka, in particolare quello di brani in prosa molto "alla Walser" come "Gli alberi", con l'idea della vita quale giostra di apparenze che rimandano ad altre apparenze e infine al nulla. Si capisce insomma perché lo stesso Walser, in una prosa poetica scritta poco prima di chiudersi nel silenzio, si fosse idealmente rivolto ai lettori "venuti dopo" non augurando «a nessuno di essere come me, di sapere tante cose, di avere visto tante cose e di non avere nulla, così nulla da dire».
Ma si capisce anche - e soprattutto - perché il giudizio di Hesse esprime un'utopia tanto irrinunciabile quanto irraggiungibile: non bastano centomila lettori di Walser per evitare le guerre, raffinare la bestia umana e rendere il mondo migliore e più assenato. Però bisogna continuare a crederlo, il che significa che bisogna continuare a leggere Walser, oggi più che mai, contro ogni evidenza e perfino contro ogni ragionevole speranza.