Recensioni / Le città dopo il Covid-19

I vari contributi presenti in questo veloce libretto sono stati scritti tra l’estate e l’autunno del 2020. Già solo questo fatto suscita una qualche curiosità: come vedevamo il mondo nel vortice dell’epidemia, ancora concentrati sul numero di contagiati, degli intubati e dei morti, impauriti dal virus e dalle strategie di contenimento? Sebbene ancora in presenza di una forte circolazione del virus, il contesto appare oggi completamente mutato: la conta giornaliera ha perso il suo appeal apocalittico, persino il numero di vaccinati, prima ossessivamente consultato e commentato, ha oggi lasciato il campo unicamente alle polemiche (sempre più residuali) sul green pass. Insomma, la quotidianità sembra essersi ripresa definitivamente la scena dopo qualche mese di stralunata e drammatica sospensione, e ciò che fino a sei mesi fa si presentava in forma catastrofica oggi è trattato con infastidita sufficienza.

Quanta distanza con la retorica millenaristica del 2020: “non torneremo al mondo di ieri” e “niente sarà più come prima”, ricordate? Come ogni crisi, questa si è “limitata” – per così dire – ad accelerare tendenze già pienamente presenti nel mondo pre-crisi. Nulla che già non conoscevamo si è assestato: smart working e gig economy, delivery e telelavoro, transizione ecologica ed esplosione della socialità telematica: tutto ciò che era ben presente nel 2019 si è riproposto, moltiplicato, ingigantito e pervertito, nel 2021. Già questa, però, è una novità di cui tenere conto, che cambia il volto delle nostre vite e, specificatamente in questo caso, delle nostre città. Il futuro era già qui, solo che si è socializzato, o per meglio dire tende a fagocitare ogni spazio conteso, debellandolo da quelle sopravvivenze oramai disfunzionali al “pieno sviluppo delle forze produttive”. La crisi è sempre un’occasione per chi sa (e può) coglierla.

La città post-pandemica
In tal senso, i contributi curati da Fausto Carmelo Nigrelli escono inevitabilmente già datati. Le ansie e le speranze che alimentavano i ragionamenti di un anno fa si sono scontrati con una realtà che ha ripreso il suo corso metabolizzando quanto di utile poteva darsi al rafforzamento dello status quo. Una crisi governata dall’alto, senza significative mobilitazioni alternative, non poteva che ridurre il portato degli eventi a una gestione accorta di quanto poteva “sfuggire di mano”. È in ogni caso quanto riconosciuto dagli autori più attenti alla realtà nel suo complesso, come Stefano Munarin:

Penso che dobbiamo ragionevolmente attenderci (e anche in parte sperare in) risposte “tecniche”, parziali e settoriali, anche se noi, giustamente, tendiamo a riconoscere una dimensione più ampia e complessa dei fenomeni. Ciò che temo per il “dopo” quindi, sapendo come si sono “risolte” alcune precedenti crisi è piuttosto una sorta di ennesimo risultato gattopardiano, nel quale “nulla sarà come prima” eccetto che i ricchi saranno sempre più ricchi (sani e protetti) e i poveri sempre più poveri […]. La città del dopo, almeno per quanto riguarda il suo aspetto fisico, spaziale, sarà la città del prima e del durante, con piccole variazioni [p. 129].

L’inevitabile sfasamento temporale è il caro prezzo che pagano gli studi sociali. In questo caso il prisma è dato dalla realtà urbana in rapporto al virus: come potevano cambiare le città, e come stanno effettivamente cambiando? Perché bisogna pur dire che la realtà urbana – una delle principali investite frontalmente dalla pandemia – ne esce se non stravolta, sicuramente trasformata. La città post-pandemica è una città diversa? Questa è la prima questione di cui bisognerebbe discutere, e che il libro affronta con quel carico di speranze (ma anche di timori e di vere e proprie paure, sacrosante) che potevano intravedersi lo scorso anno. In sede di presentazione, Nigrelli sostiene che la pandemia abbia indotto nientemeno che «un nuovo ciclo urbano», dalla direzione però ancora incerta: da un lato funzionale a una «manutenzione del modello iperliberista»; dall’altra, più estrema, che ripensi alla radice le forme di inurbamento, invertendo il ciclo storico della «iperconcentrazione insediativa metropolitana» [pp. 9-10]. Se il tema è giusto – ragionare cioè della qualità e quantità degli insediamenti urbani – l’approccio è discutibile (non sbagliato, attenzione, ma problematico): può l’urbanistica rispondere a sollecitazioni che avvengono su altri piani, su altre scale? Può un pensiero urbano governare fenomeni che trascendono la città e che precipitano su di essa?

Lo straordinario inurbamento (ma quale? Roma è circa un cinquantennio che non aumenta né diminuisce i suoi abitanti; così molte altre, se non tutte, le grandi città italiane), fenomeno peculiare di alcune aree del mondo, soprattutto asiatiche, è un fatto poco governato e molto subito: sono l’economia, le guerre, le carestie, la demografia o il mutamento climatico a determinare spostamenti di popolazione, favorendo ora la metropolizzazione ora la dispersione territoriale. Le città attirano popolazione perché è nell’insediamento urbano che trovano concreta presenza quei beni e servizi che definiscono la vita in comune. Il welfare state, l’accesso ai servizi di prima necessità, la possibilità di contatto e di scambio, l’arricchimento culturale, lo svago, la vita sociale nel suo insieme, tendono a concentrarsi perché è vantaggioso logisticamente ed economicamente. Invertire questa dinamica storica (e ormai plurisecolare) è qualcosa che attiene al modello di sviluppo (e di governo), non alle soluzioni urbanistiche per questa o quella città. Ma poi, è davvero necessaria “invertirla”?

La dispersione territoriale favorirebbe davvero processi “eco-sistematici”? Su questo un grande sociologo urbano come Guido Martinotti aveva i suoi fondati dubbi: la città, concentrando la popolazione, concentra anche le soluzioni, e non è scritto da nessuna parte che cento persone che abitano in un palazzo inquinino di meno di cento villette sparse per tutto il territorio circostante. Anzi. E il fenomeno delle cosiddette shrinking cities, ovvero delle città che si spopolano, mostra una traiettoria di miseria urbana, non certo un arricchimento del contesto peri-urbano e regionale.
Di tutto questo gli urbanisti convocati a discutere della conseguenze del Covid ne sono ben consapevoli, eppure sembrano rimanere avvinghiati a una disciplina che si è sempre situata in uno spazio liminare, di frontiera tra società, politica e ideologia (ovvero al confine tra scienza e prassi). Non per caso, molto di quanto si legge, in questo libro e altrove, ha un sapore profetico che eccede di molto le possibilità di una disciplina importante ma parziale, e sovente impotente riguardo ai problemi di cui discute, che evoca e che però lascia sospesi. Ma allora, che morfologia presenta la città post-pandemica?

È tornato il consueto traffico automobilistico, così come la presenza massiccia sui mezzi pubblici; hanno riaperto più o meno tutte le attività, sociali, culturali, economiche, al di là dell’inevitabile selezione determinata dal lockdown, invero minore di quanto ci si aspettasse; il famigerato smart working sembrerebbe in via di riduzione, anche per sprone politico, mentre ingigantita è la presenza di quell’economia delle piattaforme che sempre più invade le nostre vite. Tutto uguale quindi? Più o meno. In realtà i territori di prossimità, i quartieri entro cui prende sostanza la vita cittadina materiale, quella realmente vissuta, sembrano essersi ulteriormente impoveriti di relazioni sociali e desertificati di presenza umana e produttiva. L’economia delle consegne a domicilio, del delivery, dei riders, della disintermediazione fisica e del just in time, espandendosi a dismisura, ha comportato una ricaduta fisica nel contestuale svuotamento del panorama complesso delle attività sociali di prossimità. Esistono ancora, va da sé, supermercati e ristoranti (e anzi moltiplicano le proprie attività e i propri profitti), ma c’è tendenzialmente meno gente che ci va fisicamente. Sembra essere diminuito il transito casuale, quella sorta di involontaria e inconsapevole flânerie che animava il territorio inerente alla propria abitazione o al proprio luogo di lavoro, sviluppando un’economia a sostegno di questo transito.

Se ogni bene o servizio può essermi potenzialmente recapitato a casa, non per questo annullo la mia propensione a uscire, ma di certo ne riduco la necessità. Stesso discorso può replicarsi sulla presenza in ufficio, su quel “riunionismo” che si è in parte spostato sulle piattaforme online di comunicazione. Ovviamente l’uso straordinario che facevamo di questi mezzi durante il lockdown sta venendo fisiologicamente riassorbito dal ritorno “in presenza”. Eppure qualcosa rimane, è destinato a rimanere, comportando delle immediate conseguenze fisiche per la città, i suoi quartieri, e ancor di più per la sua periferia. I ristoranti a pranzo, ancora oggi, soffrono di questo movimento ridotto, molte volte scegliendo di aprire solo a cena.

La città post-pandemica sembra allora accelerare la sua dicotomizzazione tra “centro” e “periferia” (termini da assumere non prima di aver letto le molteplici avvertenze, come con le medicine): la periferia tende a svuotarsi ulteriormente di forza lavoro, pendolando verso un centro logistico (non per forza geografico) che organizza l’economia delle consegne a domicilio e del just in time. Il centro è invece in una fase di transizione, ancora tutto sommato orfano dei flussi turistici globali ma incapace di essere pensato altrimenti. D’altronde, chi investe nell’economia urbana è ormai solo il settore privato, e questo investe laddove c’è possibilità di profitto, non in funzione di una “buona vita” da riportare nella città consolidata.

C’è poi una “terza” città, quella gentrificata, che è uscita stravolta dalla pandemia e che oggi è gioco-forza destinata a ripensare se stessa. È qui, nei territori della città consolidata, non-centro e non-periferia, dove sopravvivono lembi di popolazione “reale” sempre più assediati, almeno nel recente passato, da quella «produzione di territorio» sinonimo di svuotamento demografico ed esclusivizzazione patrimoniale, che si giocherà la partita decisiva. Una partita che, sia detto con estremo realismo, non può che essere di resistenza, e quindi destinata a soccombere, se il piano del discorso sarà solamente urbanistico e non investirà, al contrario, la direzione stessa del modello di sviluppo. Non è dalla città che sarà possibile re-immaginare un modello alternativo, perché la città è costitutivamente priva di quei mezzi finanziari e coercitivi in grado di invertire un processo al tempo stesso privatistico e anarchico. La città post-pandemica è una città spogliata di vita pubblica, e su cui si ritagliano soluzioni tampone che stupiscono per la loro ingenuità. La “città dei 15 minuti”, ad esempio, oltre che dal latente carattere regressivo, prevedrebbe in prima istanza una quantità di investimento pubblico in aperta contraddizione con il livello medio di indebitamento delle città italiane, senza considerare la riduzione storica di trasferimenti fiscali dallo Stato agli enti locali. Gente che fino a ieri ridicolizzava il modernismo insito nell’Unité d’Habitation ne vorrebbe replicare la sostanza a livello micro-territoriale, con buona pace di razionalità e fattibilità della proposta.

Se, come afferma giustamente Maurizio Carta nel suo intervento, «la città […] non è mai il prodotto di un’unica volontà deterministica che produce azioni singole, ma il risultato dell’emergere di innovazioni improvvise» [p. 22], quello su cui si può attestare il pensiero urbano è un ragionevole governo cittadino di fenomeni economico-sociali più grandi e inafferrabili. E nonostante questa recondita impotenza, sarebbe già molto. Riparare quello «spazio senza luogo» di cui parla Nigrelli nel suo intervento, «prodotto e strumento delle logiche che hanno prodotto vastissimi scarti paesaggistici e territoriali» [p. 51]. Perché la città, almeno le grandi metropoli d’Italia e d’Occidente, sono multiformi (e sempre più smisurati) assemblaggi urbani di pochi spazi valorizzati (leggasi privatizzati) al fianco di sterminati territori di scarto, necessari però alla suddetta valorizzazione. Non c’è centro senza periferia, non c’è arricchimento senza manodopera a basso costo, non c’è gentrificazione senza espulsione. L’una cosa prevede l’altra. La città del futuro, se vuole intendersi come più vivibile (ossia più democratica), non può che operare in vista di una riduzione di questa dicotomia, elaborando progetti di trasformazione complessiva che riportino popolazione “reale” al centro e favoriscano al contempo forme di sviluppo economico e lavorativo in periferia. Riducendone la distanza sociale piuttosto che immaginare territori “funzionali” che si traducono sempre e comunque in dicotomiche opposizioni tra esclusivizzazione e ghettizzazione.

Senza intestarsi battaglie di retroguardia nostalgica in difesa di un’economia di vicinato che scompare perché inserita in logiche più vaste e impersonali: non torneranno gli artigiani in virtù di una qualche esenzione fiscale insomma. Ma tentando di governare e di piegare agli interessi cittadini ciò che l’economia urbana già è capace di generare. Non per questo scompariranno le contraddizioni ma, come conclude opportunamente Giovanni Caudo, «la natura della città che ci aspetta [è] l’essere contraddittoria» [p. 91]. Imparare a stare nella contraddizione, senza rifiutarla, è la sfida urbanistica del futuro, per una città post-pandemica che non peggiori condizioni di vita urbana che si presentavano in forma già pervertita nel mondo pre-Covid.