Recensioni / Oltre i medicalismi, oltre il Covid. L’urbanistica della cura, dell’empatia e dei nuovi equilibri spazio-temporali

Voglio iniziare raccontando un retroscena apparentemente marginale ma che considero rilevante rispetto al tema a cui è dedicato questo numero speciale e alla missione stessa della rivista (ibidem). Prima del volume a cui queste colonne sono dedicate, mi ero offerto di recensirne un altro, che peraltro avevo già sulla scrivania ma non avevo ancora cominciato a leggere. Il titolo mi aveva incuriosito, perché richiamava alcuni concetti che stavo approfondendo nell’ambito delle mie ricerche. Dopo averlo letto ho preferito rinunciare a recensirlo perché, oltre a deludere le attese rispetto alla trattazione dei concetti ‘promessi’ in copertina, il libro in questione non ha a mio giudizio le caratteristiche di originalità, struttura, organizzazione e sviluppo dei contenuti che tutti i libri dovrebbero avere per differenziarsi da altri tipi di pubblicazioni più ‘leggere’, destrutturate ed estemporanee. Quelle pagine, più che di un libro, mi sono parse quelle di un taccuino di appunti e pensieri raccolti in forma libera e sparsa. Non voglio dilungarmi né sembrare eccessivamente critico, ma questo è per me un buon punto di partenza per affermare – ora Oltre i medicalismi, oltre il Covid. L’urbanistica della cura, dell’empatia e dei nuovi equilibri spazio-temporali che un po’ di tempo è passato e possiamo guardare con un minimo di distacco allo shock che abbiamo subìto e alla fase di piena emergenza – che la crisi pandemica ci ha proiettati – tutti, compreso chi scrive! – verso modalità di scrittura e pubblicazione troppo istintive, oltre che troppo istantanee. Ciò ha reso alcuni testi non sempre degni di essere dati alle stampe, perché viziati dalla necessità prioritaria di cogliere l’attimo a discapito della cura che ‘in tempo di pace’ gli autori (e gli editori) avrebbero dedicato ai contenuti e alla forma; ma anche perché figli di una sorta di trance emotiva che ha alterato la percezione del necessario e del dovuto. Ho l’impressione che la fretta di pronunciarsi in merito a un fatto così dirompente, dilagante e sconvolgente come la pandemia da Covid-19, la voglia di provare a indicare possibili vie d’uscita e di misurarsi con una sfida così complessa, abbiano abbassato il livello medio della scrittura e intaccato persino la scientificità di alcune produzioni accademiche. Entro questo quadro, il merito principale del libro curato da Fausto Carmelo Nigrelli, che è il vero oggetto del presente contributo, è quello di avere optato, anziché per la strada solitaria e decisamente più rischiosa della monografia, per una raccolta di contributi a firma di diversi autori accomunati dalla qualifica di urbanisti. Il titolo, Come cambieranno le città e i territori dopo il Covid-19, appare tuttavia troppo ambizioso, soprattutto se si pensa che i capitoli che lo compongono sono stati scritti a cavallo tra estate e autunno del 2020. Inoltre, un libro che contiene diverse «visioni» non necessariamente «collimanti» (Nigrelli, p. 9) appare difficile non solo da recensire, ma anche da metabolizzare. Mi concentrerò pertanto sulle parti che più mi hanno stimolato e in particolare su una questione, fondamentale per l’urbanistica, che emerge in modo abbastanza trasversale dai diversi capitoli del libro: il ripensamento del rapporto tra spazio e tempo alla luce della pandemia da Covid-19, anche in relazione alla risignificazione del concetto di cura.
È Nigrelli stesso a concentrarsi per primo sul nuovo rapporto tra spazio e tempo spiegando che esso non potrà più essere come prima, ma che per sostituire o quantomeno controbilanciare il modello economico iperliberista bisognerà costruire visioni e strutture adeguate a gestire la transizione verso modelli capaci di ricostruire luoghi e tempi della vita umana anche laddove oggi non restano che spazi-scarto dell’ipermodernità: «non si tratta, dunque, di contrapporre spazio e tempo, ma di riflettere sul fatto che entrambi hanno via via perso il sistema di relazioni tra loro e hanno impoverito quello con noi umani e i nostri corpi” (Nigrelli, p. 51). La ‘città dei 15 minuti’ è solo la manifestazione più evidente – non per questo la più condivisa e convincente – di un moto collettivo di ricerca di nuovi rapporti spazio-temporali tra corpi, luoghi e movimenti. Si tratta, come afferma Nigrelli, di un sostanziale cambio di paradigma nel modo di pensare gli spostamenti, laddove ad essere importanti non sono solo i punti di partenza e di arrivo e i tempi di percorrenza che li separano, ma anche la qualità di ciò che sta in mezzo e dell’esperienza corporea che è parte non trascurabile di ogni spostamento umano, a prescindere dalla scala e dal tipo specifico di ambiente che si deve attraversare. La pandemia ha forse reso meno astratto e meno dilatato lo spazio e meno compresso il tempo? Nigrelli lo sostiene, mentre Claudio Saragosa vede nel Covid-19 un ulteriore propulsore della smaterializzazione dei corpi che rende sempre più inconsistente, non tanto lo spazio della prossimità privata che si mescola a quello del «collettivo non corporeo» (Saragosa, p. 100), quanto lo spazio collettivo, corporeo ed empatico della città e del territorio fuori dai confini delle nostre cellule domestiche. Eppure, sulla scia di Bianchetti (2020) – e richiamando il pensiero di Maurice Merleau-Ponty (1964) – Saragosa ci ricorda che il nostro esserci passa sempre e comunque attraverso l’albero di trasmissione ‘mente-corpo-mondo’ che consente all’io di specchiarsi nella complessità del mondo per «ritrov[are] la densità della vita» (Saragosa, p. 101), che non può avere succedanei. In qualche modo questa riflessione, come rammenta Alessandra Casu, spinge le discipline urbanistiche a insistere, oggi più che mai, su un migliore equilibro (in medias res) tra segregazione e mixité, tra specializzazione e flessibilità, tra privato e pubblico, tra piccolo e grande, anche con riferimento alla varietà di realtà insediative italiane. Da questo punto di vista, l’esplosione del Covid-19 ha riportato in auge la ormai infeconda dicotomia tra vita urbana e vita rurale, esacerbando la polarizzazione tra aree metropolitane e aree interne, lasciando che nel dibattito pubblico si insinuassero visioni superficiali e sbrigative quali quelle della fuga dalle città, del ritorno ai borghi, alla campagna o alla natura. Ciò ha contribuito a distrarre anche alcuni urbanisti dall’unica e sensata prospettiva su cui investire, quella delle relazioni tra piccoli, medi e grandi centri urbani. Nel libro, diversi contributi si concentrano sul rapporto tra struttura insediativa e demografia per traguardare forme di decompressione o deconcentrazione delle aree urbane italiane a vantaggio di un rafforzamento dell’abitabilità, attraverso innanzitutto un «welfare distribuito» (Nigrelli, p. 12), di altre aree oggi meno ‘forti’ del paese e delle loro interrelazioni. Questa posizione di un ‘ritorno alla misura’ o ‘alla giusta distanza’ è condivisa da tutti gli autori che la interpretano spesso a partire dal concetto di prossimità come fondamento della vita urbana a tutte le scale, dai piccoli centri alle grandi metropoli, e che la pandemia ha riportato al centro del dibattito svelando definitivamente tutti i limiti dell’iperspecializzazione dei servizi alla cittadinanza, ovvero dell’«aziendalizzazione del welfare» (Nigrelli, p. 13). Ed ecco che, come è giusto che sia, il ripensamento del rapporto spazio-tempo e la risignificazione del concetto di cura si intrecciano in un unico discorso e un’unica visione socio-territoriale moralmente imperniata sul comunitarismo ma anche sulla «responsabilità etica comunitaria» (Moccia, p. 153), dal momento che il virus, oltre a minacciare la sopravvivenza dei singoli individui, «ha attaccato le basi fisiche della vita insieme» (Pezzali, 2020, s.n.p.). Parlando di cura, appare molto interessante la riflessione sul dualismo tra salute e benessere che Domenico Moccia ci ricorda essere presente lungo tutta la storia degli insediamenti umani e la cui visione sinergica è alla base delle idee stesse di città e di urbanistica: «trovare soluzioni che siano in grado di soddisfare entrambe le esigenze, a ben vedere, è stato il percorso privilegiato della tecnica urbanistica» (Moccia, p. 146). Ciò non significa, come ammonisce Saragosa riprendendo Lévy (2020), fare ripiegare le discipline urbanisti che su concezioni puramente medicali proprie di altre discipline (p. 95), ma continuare a immaginare e progettare spazi empatici e relazionali «intrisi di equilibri omeostatici» (p. 100), assegnando un ruolo precipuo alla rigenerazione degli spazi che hanno perso qualità (ma anche ‘camminabilità’, per dirla con Casu, Martinico e La Greca) o che ne sono privi all’origine a causa dei processi morfogenetici che li hanno prodotti. Ciò presuppone innanzitutto, come sostiene Maria Chiara Tosi (p. 82), di tornare a «spazializzare i fenomeni» riportando il territorio «dentro il panorama nelle politiche» e avendo come obiettivo principale quello di migliorare, interconnettere e rendere accessibili a tutti le infrastrutture collettive che sono il pilastro del nostro benessere e della nostra libertà.
In generale, le posizioni dei diversi autori alternano momenti di scetticismo rispetto alle possibili modalità di uscita dalla crisi – ma anche rispetto al ruolo dell’urbanistica – a posizioni più ottimistiche, così come visioni tendenzialmente metropoli-centriche a visioni che si costruiscono a partire da una nuova centralità dei luoghi ‘marginali’. Stefano Munarin paventa il rischio di risposte troppo tecniche e parziali con esiti ‘gattopardiani’ di accentuazione dei divari sociali. Un più ottimista Giovanni Caudo, invece, confida in una nuova tessitura dei servizi di prossimità, a incominciare da quelli sanitari, e in una riscoperta della città come dispositivo di cura. Mentre Martinico e La Greca (p. 119) si preoccupano dell’insostenibilità sociale della diffusione insediativa, anche alla luce della congiuntura demografica, in altri contributi traspare l’idea che in un’Italia «multiurbana» (Carta, p. 26) non saranno i centri delle grandi città a produrre le innovazioni più interessanti e a rappresentare le più autentiche avanguardie del cambiamento auspicato, ma le piccole e numerose «comunità del coraggio», che «sperimentano, senza protocolli consolidati, il nuovo metabolismo urbano» (p. 31). A prescindere dalla visione territoriale – tra ineluttabilità della centralità urbana e bisogno di un’inversione del paradigma dell’iperconcentrazione metropolitana – è indubbio che la crisi pandemica abbia messo tutti nelle condizioni di comprendere che è davvero possibile abitare e lavorare tra più luoghi in modo meno distinto e più agile che in passato. Non si tratta di ritornare ai borghi o ai villaggi per farne «confortevoli rifugi» post-pandemici (Carta, p. 31), ma di rendere più sostenibili, entro stili di vita sempre più variegati e mobili, forme di neo-radicamento nei luoghi, di multiresidenzialità e di vero smart working secondo una concezione relazionale, e non più oppositiva, tra mobilità e radicamento (Daconto, 2013) e tra analogico e digitale. Anche nei luoghi più marginalizzati serve creare occasioni di rigenerazione delle infrastrutture della vita quotidiana, economie sostenibili anticicliche e destagionalizzate, oltre che capacità di attivazione sociale e culturale in controtendenza con gli approcci del marketing territoriale, della gentrification e del turismo oleografico ed estrattivo.
Quel che non ho ritrovato in questo libro, se non tra le righe, è una questione che considero fondamentale per il futuro post-pandemico delle città e dei territori, ovvero il ruolo che dovranno necessariamente avere le politiche in favore di una più sostenibile mobilità di medio e lungo raggio, che consenta di sfruttare tutte le potenzialità del remote working per riconnettere, riscoprire, ripopolare e rigenerare luoghi diversi e molteplici in cui vivere, lavorare e ricrearsi.