Nel 1967 Ludovico Quaroni scrive
"La Torre di Babele", un libro
impostato su di un unico argomento
fondamentale: il problema del disegno
per la città moderna. Non per caso il
testo è pubblicato da Marsilio nella
collana Polis, allora diretta da Aldo
Rossi, altro architetto profondamente
legato a temi di carattere urbano.
Urbanista, progettista, saggista,
docente universitario, Quaroni opera
e insegna dentro Roma e non solo
lungo tutto l'arco del proprio intenso
percorso professionale. "Non parlava
mai di architettura, eppure parlava
sempre di architettura", lo ricorda
così Giorgio Ciucci, suo allievo.
Non si può dire lo stesso per un
altro gigante delle antologie
d'architettura nostrane, Manfredo
Tafuri. Anch'egli laureato a Roma,
alla Sapienza, nella prima facoltà di
Architettura nata in Italia, Tafuri non
riuscirà mai a collocarsi
compiutamente tra le mura amiche,
chiuso nella morsa di un approccio
accademico asfittico, ingolfato,
marcatamente condizionato da figure
troppo ingombranti, Bruno Zevi su
tutti. Inizierà il suo percorso come
docente a Palermo per poi muovere
verso Venezia, città dalla quale non
prenderà più le distanze. Un cursus
analogo a chi a Venezia lo aveva
voluto, il siciliano Giuseppe Samonà,
l'artefice di quel visionario
esperimento accademico chiamato
IUAV.
Fisionomicamente non dissimili,
Quaroni e Tafuri sono entrambi
impregnati di una capacità analitica
applicata alla dimensione urbana,
che non di rado germina sulle sponde
del Tevere, dove negli stessi anni
coesistono intellettuali decisivi per la
disciplina come De Renzi, Libera,
Ridolfi, Moretti, Muratori, Sacripanti,
Benevolo, Aymonino, Portoghesi,
Anselmi, Dardi, Purini, Muratore, per
l'appunto Quaroni, Zevi, Tafuri e lo
stesso Samonà. Senza dimenticare la
coeva produzione cinematografica, la
quale impattava tremendamente
sulla presa di coscienza di quanto la
scala territoriale del progetto stesse
ridefinendo il concetto di città,
quantomeno la sua percezione. Anche
grazie a questo terreno comune, che
ritenere fertile risulterebbe
ingeneroso, Tafuri compie i suoi
primi passi delineando un approccio
estremamente contemporaneo,
abbandonando l'angusta unità di
metodo e inseguendo una
molteplicità necessaria a nutrire e
conformare la propria peculiare
ricerca.
Di questi primi anni, pubblici ma
giovanili, si occupa "Dal Progetto alla
Storia", a cura di Luka Skansi per
Quodlibet; un libro prezioso che
raccoglie scritti meno noti di Tafuri,
inquadrando l'unica reale finestra
romana all'interno della biografia del
nostro. Sono gli anni delle battaglie
insieme a Italia Nostra, dei progetti
con AUA (Architetti Urbanisti
Associati), degli approfondimenti sul
piano per Tokyo di Kenzo Tange, un
caso studio ritenuto importante
poiché non rimane utopia e non si
riduce a vuota azione, garantendo una
posizione operativa e ancora efficace
al disegno urbano nella società
capitalista. Lo scritto più corposo
presente nel libro è "La vicenda
architettonica romana, 1945-1961", un
testo che a posteriori potrebbe quasi
intendersi come una lettera di
congedo. Poiché attenendoci ai fatti
Roma rifiuta Tafuri, il quale troverà
in quel miracolo di città chiamato
Venezia un equilibrio umano e
professionale che gli consentirà di
pacificarsi lontano dalla torre,
nonché dal mito di Babele. Quasi una
scelta più che una sconfitta, un modo
per allontanare quel sordo
professionismo da sempre rifuggito,
troppo vicino al pericoloso
automatismo delle tecniche, valori
perfettamente incarnati dal demiurgo
Mies, architetto mai troppo amato da
Tafuri. Una vicenda biografica e
professionale che lo potrebbe
accostare oggi alla figura di Pier
Vittorio Aureli: entrambi romani di
passaporto, entrambi professori
altrove, entrambi teorici irriducibili,
entrambi progettisti a modo loro,
entrambi vicini a Peter Eisenman,
entrambi in fuga da Roma Babele