Recensioni / A proposito di Giuseppe Frazzetto, Nuvole sul grattacielo. Saggio sull’apocalisse estetica

E se fossimo al principio d’un nuovo epos, come ai tempi dei primi greci? Una costellazione di narrazioni orali non ancora sistematizzate, di casa in casa, di focolaio in focolaio la sera, ma dagli schermi dei nostri smartphone? Allora l’apocalisse estetica sarebbe, come un eone, l’inizio di un nuovo inizio, ancora l’ignoto, non la fine.

La domanda si insinua sin dalle prime pagine di Nuvole sul grattacielo di Giuseppe Frazzetto (Quodlibet, Macerata 2022), posta in premessa da Monica Ferrando nel tentativo sgomberare di subito la nostra immaginazione bloccata, prerequisito indispensabile per una corretta comprensione del libro.

Il rimando a una mitologia arcaica potrebbe calzare bene ai due personaggi del prologo e dell’esodo. Posti l’uno di fronte all’altro in una vaporosa visione, sembrano stare il piccolo Giasone, al principio delle gesta argonautiche, e il centauro Chirone suo istitutore: “Non c’è niente di naturale nella natura, ragazzo mio, tienilo bene in mente”.

Il richiamo a Pasolini trova giustificazione nel fatto che il libro di Frazzetto parla primariamente di immagini, e il suo abbrivio, per l’appunto, è cinematografico. La nostra civiltà ha perso il contatto con l’aura dell’opera d’arte (Benjamin), l’artista non avrebbe più un ruolo vaticinante, il suo gruppo non lo appella più, egli non più vede e anticipa il futuro, l’ispirazione è revocata in dubbio, Parnaso è ormai lontano. Lo aveva intuito Giulio Paolini quando si interrogava su chi guarda chi (Giovane che guarda Lorenzo Lotto, 1967, L’ultimo quadro di Velàzquez, 1969) o sulla necessità di additare l’antico per via di continui rimandi (Poussin che addita gli antichi come esempio fondamentale, 1968). Con l’avvento dei social media siamo tutti nella condizione straniante di colui che non solo non osserva, ma produce e produce più o meno consapevolmente ipostasi d’immagini che hanno la pretesa d’essere opere d’arte per una cerchia ristretta di follower (dalle strategie degli influencer, alla condivisione di un selfie, alla creazione di nuovi storyboard tramite meme). Tutti siamo prosumer, consumatori e produttori di immagini, e l’onda anomala di consenso che a tale produzione/consumo corrisponde è paragonabile, appunto, a un banco di nuvole che corre veloce sulle nostre teste, come nelle sequenze filmiche di Godfrey Reggio. Poiché “non c’è niente di naturale nella natura” e la storia non è né generale né è categorizzante, dobbiamo accettare che la nostra vita sia al più un flusso continuo di “voci di un archivio sconfinato” (p. 20), ragione per cui ci troviamo tutti nella condizione ludica e straniante di chi, come alla consolle di un videogioco, decide di finire per ricominciare, e poi di nuovo, e poi di nuovo in una continua rappresentazione di me/mondo (§ 2.3).

Ma non è forse questo continuo sconfinamento effimero e quotidiano una possibile proiezione dell’intimo verso il suo punto di domanda finale? L’autore ne fa derivare un secondo caso tematico: quello escatologico (§ 1.2). Se tra gli antichi romani era ancora possibile individuare la soglia nel cosiddetto mundus

patet (da Ernesto De Martino: “una fossa scavata al centro della città, come soglia fra il luogo dei vivi e quello dei morti”; p. 42) quale sarà il possibile locus della postmodernità, dove e quando un altro antro delle ninfe? Percependo l’instabilità della società al suo intorno, con mezzi del tutto analogici Aby Warburg aveva già iniziato una catalogazione per immagini di storie su storie nel processo tassonomico che egli definiva Atlante Mnemosyne. In tal modo il mundus patet ancora si apriva, era ancora possibile ricordare. Sul suo solco, tanti altri (ad esempio Marcel Duchamp, Alighiero Boetti, On Kawara) realizzeranno collezioni. Trasmettere per non perdere contatto con la storia universale alla vigilia di una possibile fine planetaria. Il ricordo aveva ancora per costoro un valore profondamente escatologico e religioso, Mnemosyne pur sempre aleggiava, additava l’antico.

È ancora così, si interroga Frazzetto? Quale catalogazione è possibile oggi nella continua produzione-distruzione-riproduzione delle immagini digitalizzate e messe in rete alla vista di tutti? Siamo ancora presenti, sappiamo ancora guarire alla visita del Museo sconfinato e smaterializzato che sta nella rete?

Sarebbe interessante capire se esista o meno una direzione ‘nostalgica’ del prosumer, se esista ancora una possibilità che nella ‘gamificazione’ continua rimanga o no quel senso escatogico dell’attesa che tanta fortuna diede alle religioni rivelate e che l’autore sembra apparentemente escludere dal ragionamento. Apparentemente.

Non c’è più freno perché non c’è più aspettativa, egli insinua. E se, sociologicamente parlando, il nostro inesausto consumo di immagini trovasse il proprio limite nella continua effrazione, ancorché inconsapevole e fuori controllo, della regola di base? Se la continua polverizzazione delle icone archetipiche di junghiana lezione finisse per produrne di nuove fino alla loro ricomposizione in un’immagine teologica, con una sua iconologia e iconografia coerente? Sto parlando della possibile composizione (per via di reiterate esperienze collettive post contemporanee) di nuove forme spirituali; ancora indefinite, intendiamoci, ma che in un prossimo futuro potrebbero giungere a compimento. Non sarebbe allora ridisegnato il cosiddetto ‘limite’ nella compiuta immagine di un nuovo pantheon?

‘Essere’ prosumer in direzione demiurgica. Se ci si pensa, l’unico produttore di immagini in questo nostro pianeta è e rimane l’uomo; così nascono le forme politiche e religiose, per via retorica di ‘abbellimenti’ o ‘abbrutimenti’ continui. Nel ciclico processo di aggregazione-disgregazione della storia, siamo alla fine, siamo all’inizio o siamo in un inesausto durante, col cielo denso di nuvole veloci che ci corrono sopra la testa? La questione è complessa come la vita. Perdersi per ritrovarsi; secondo una metodica Surrealista e Situazionista, spaesarsi per poi deturnare.

In tal senso le ultime pagine del libro sono di stupefacente bellezza. Dopo avere depistato il lettore con un sapiente gioco borgesiano nel labile schermo della sua Città di rame, come uno stilita Frazzetto condensa il discorso da quel tetto di grattacielo che comunque rimane il nostro Io, locus ideale da cui inscenare al meglio la cerimonia del me/mondo mentre le nuvole continuano a correre veloci.

A volo d’uccello, dal picco sarà possibile vedere l’alto e il basso insieme e se il grattacielo non dovesse esserci più, come dopo l’11 settembre, allora sarà nostro compito darci la possibilità di un’implosione di quell’alto e di quel basso insieme. “Lì, in quel ‘sistema’ metonimico, si manifesta il nostro scontro col mundus” (p. 183). Come in un buco nero cadere, essere “risucchiato per poi forse essere risputato in un’altra dimensione e/o in un altro tempo” (ivi). Uscendo dalla fossa, avere ancora una possibilità di vedere.

E narrare, perché nel campo ermeneutico, non essendo più dati né le nuvole né i grattacieli, quale ruolo avrebbe chi si ostinasse ancora a scrivere d’arte? Frazzetto torna a Giacomo Leopardi per restituire senso alle cose e con Leopardi alla poesia, al sublime, alla malinconia di una Gloria che abbia il sentore del dono, un neo Romanticismo postmoderno. Non fecero così i tedeschi e gli inglesi del tardo Settecento, del primo Ottocento, nel tentativo di salvare il paesaggio dall’avanzare del progresso industriale? Nostalgia e mitopoiesi. Nostalgia e mitopoiesi, con l’unico scopo di “… una ‘felicità che cade’, ineffettuale ed essenziale, amichevole e terribile, amara ed estetica – come talvolta accade ‘nel risveglio’” (p. 196).

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