Recensioni / La prosa del mondo nel primo Novecento. Su un libro di Daria Biagi

Ci sono saggi in cui la trama del racconto si fa tanto densa da imporsi sulla scansione dell’indice, che per eccesso di onestà appare rigida rispetto alla rete di connessioni intrecciata un paragrafo dopo l’altro fino a cogliere i nodi di un intero periodo storico. È questo il caso di Prosaici e moderni. Teoria, traduzione e pratica del romanzo nel primo Novecento (Quodlibet, 2022) nel quale Daria Biagi segue l’affermazione di un genere letterario rimasto a lungo al centro di un equivoco, stretto fra una pratica che – come è noto – guardava fin dal Seicento agli esempi stranieri e una serie di posizioni teoriche sorte sulla base di una grande tradizione lirica che tendevano a liquidarlo come poco rilevante. Diviso in tre lunghi capitoli, il libro giunge a individuare il momento in cui la prosa narrativa italiana del primo Novecento ha trovato sé stessa nel confronto dialettico con un’altra letteratura, in questo caso quella tedesca.
L’autrice parte muovendo lo sguardo su una vicenda in grado di suscitare una serie di questioni, la prima traduzione integrale in italiano del Wilhelm Meisters Lehrjahre [Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister] di Goethe dal titolo Le esperienze di Wilhelm Meister, realizzata fra il 1910 e il 1914 da Alberto Spaini e Rosina Pisaneschi, e promossa da alcuni fra i maggiori intellettuali attivi sulla rivista «La Voce», luogo quasi proverbialmente ostile al romanzo. Nella parte successiva il libro approfondisce l’affermazione di questo genere attraverso la figura di Giuseppe Antonio Borgese – già incontrato nel primo capitolo e vero protagonista della trama segreta del libro – interprete del Faust di Goethe, critico militante, docente universitario di Letteratura tedesca, scrittore di un romanzo fortunato e discusso, Rubé (1921), traduttore e direttore di collane editoriali come «Antichi e Moderni» per Carabba e poi soprattutto «Biblioteca romantica» per Mondadori (a partire dal 1930), decisive nel fornire al pubblico italiano una serie di riferimenti comuni nel genere romanzo. Nel terzo capitolo, intitolato Esperimenti di modernità, si parte ancora da Borgese, ormai in esilio in America, e da un saggio del 1930 di Giovanni Titta Rosa, Invito al romanzo, per affrontare alcuni casi particolari dell’affermazione di questo genere in Italia fra esigenze di ampliare il repertorio e nuove questioni teoriche (ecco alcuni temi: lo sviluppo editoriale, la definizione di romanzo, la traduzione dei libri Döblin e di Fallada, i romanzi di Alba de Céspedes, di Umberto Barbaro e di Ugo Dèttore). Non sarà forse inutile ricordare che tutti i più grandi libri del Modernism erano usciti negli anni Venti, così come alcuni saggi dei maggiori teorici del romanzo. Nel 1929, al di là di questa temperie, Moravia aveva pubblicato Gli indifferenti.
Sullo sfondo della rivista «La Voce», Prezzolini e Slataper discutono della necessità di tradurre il romanzo in cui Goethe è riuscito a trovare la forma che risolve il rapporto quotidiano – di difficile conciliazione – fra commercio e letteratura, trasformando la vicenda del protagonista nel modello inevitabile per ogni ipotesi successiva di romanzo di formazione. Dal punto di vista materiale il lavoro procede senza intoppi, ma agli intellettuali vociani il libro piace per il tema del giovane che supera le illusioni artistiche giovanili e trova una professione e un posto in società; piace dunque non tanto perché è un romanzo, ma nonostante sia un romanzo. Prezzolini sembra riprendere alcune riserve di Novalis per cui Goethe avrebbe offerto al pubblico un libro troppo prosaico e moderno, privo di slancio, di invenzione stilistica e di quell’unità di rappresentazione perduta con la modernità che sarà causa di lunghi studi per il giovane Lukács e per Bachtin (e a cui darà una soluzione feconda, benché non così nota, Hermann Broch nell’Immagine del mondo nel romanzo, una conferenza del 1933 a cui il libro accenna nel terzo capitolo). Nel confronto fra i vociani si gioca un rapporto ancor più insidioso di quello rappresentato nel romanzo di Goethe, vale a dire quello fra un’estetica che – gravata dal magistero di Croce – non riconosce i generi letterari e una pratica di scrittura che rifiuta le convenzioni narrative preferendo il frammento o l’autobiografia (e sarà proprio questa a rivelarsi feconda). Di una vera affermazione del romanzo in Italia si può parlare con sicurezza solo oltre questa soglia, negli anni Venti, ma se lo spazio per i narratori italiani comincia ad allargarsi in quel decennio, quello degli scrittori europei tradotti diventa decisivo per definire il contesto. Treves e Sonzogno sono ancora protagonisti della scena editoriale, ma le nuove case editrici Bompiani, Frassinelli, Einaudi, nate fra 1929 e 1933, sono pronte ad affermarsi. Mondadori si impegna in grandi investimenti.
Il lungo terzo capitolo elenca alcune collane decisive per il decollo editoriale del genere in Italia: «Scrittori di tutto il mondo», fondata da Gian Dàuli nel 1929 per la casa editrice Modernissima, «Narratori nordici», Sperling & Kupfer (1929, diretta da Lavinia Mazzucchetti); «Scrittori stranieri moderni», Treves (1929); la «Letteraria», Bompiani (1930); «Biblioteca Europea» Frassinelli (1932, diretta da Franco Antonicelli); «Narratori stranieri tradotti» Einaudi (1938, diretta da Cesare Pavese). Mondadori apre sei ulteriori collane: «Le scie» (1926), «I libri gialli» (1929), «I romanzi della guerra» (1930), «I romanzi della palma» (1932), «Medusa» (1933), «Omnibus» (1937) e pubblica più romanzi di tutti gli altri editori messi insieme. I primi anni Trenta sono anche quelli delle difficili opportunità culturali prima che la censura fascista, dal ’35 in poi, cominci a rendere più severo ed efficace il suo controllo. In questo breve arco di tempo si consolida un’immagine della prosa narrativa europea. Come nota Biagi, anche se Borgese non ha mai scritto di teoria del romanzo, le sue scelte per la «Biblioteca Romantica» parlano chiaro: «Stendhal, Goethe, Defoe, Dostoevskij, Austen, Dickens, Tolstoj, Eliot, Gogol’, Flaubert, tradotti da quelli che Borgese ritiene i più capaci studiosi e scrittori del suo tempo, da Bontempelli a Diego Valeri, da Sibilla Aleramo al già ricordato Debenedetti» (p. 172).
Un ruolo determinante lo svolgono dunque i traduttori, chiamati all’opera non più solo per la velocità di esecuzione, ma – nelle scelte di Borgese, o in quelle di Antonicelli – per una sicura padronanza dei mezzi letterari che li qualifica nella mediazione culturale. Il discorso sul romanzo in Italia nel primo Novecento si sviluppa perciò in un intreccio fra ambito di definizione teorica del genere letterario, problemi di traduzione e di trasferimento nella nostra lingua di vari sistemi di valori, e infine esperienze pratiche, le prove narrative concrete che non sembrano mai soddisfare il pubblico dei letterati. Di qui l’accusa ricorrente e ingiustificata dello “scrivere male” rivolta agli autori di un genere in cui la voce del narratore risulta una fra le tante, la cui funzione si coglie solo nell’orchestrazione delle varie voci, le “immagini del mondo” a confronto (e spesso in conflitto) che compongono l’opera. Impossibile dunque chiedere alla voce narrante, come si ostinano a fare molti intellettuali dell’epoca, di garantire l’equilibrio stilistico uniformando ogni espressione in un moto centrifugo, pena il venir meno di uno degli elementi essenziali di questo genere letterario (già nel primo capitolo il confronto che Biagi offre in rapida successione fra il modo in cui parlano i mercanti in Goethe e in Novalis appare in tal senso risolutivo). Anche quando è la voce narrante a garantire l’unità della narrazione – e non è dunque la trama a muovere il libro, penso su tutti al caso supremo di Proust – non per questo le altre non godono di un’identità di rappresentazione, a cui va restituita la rispettiva autonomia. Insomma, la prosa del mondo va riconosciuta nella sua eleganza, che non è quella della prosa d’arte.
Sono tanti gli interrogativi che il saggio suscita, anche al di là del confronto con il mondo tedesco in cui tende a esaurire le risposte. Ad esempio, la conciliazione fra commercio e letteratura è di fatto centrale nello sviluppo di questo genere di prosa; senza risalire al medioevo e agli esiti sicuri di Boccaccio, basta guardare alla tradizione inglese, a Defoe e ancor più a Fielding, che dà prova di una completa padronanza dei rapporti di forza della società alle soglie della rivoluzione industriale. E se la “modernità” della civiltà industriale è frutto di un trauma, i francesi, da Balzac a Baudelaire, da Flaubert a Zola ne hanno proposto alcune immagini memorabili. Del resto nel periodo in esame, grazie al lavoro dei traduttori, le influenze sono innumerevoli: diventano rilevanti la ricezione della letteratura russa dell’Ottocento, così come le prime influenze del Modernism.
Tornando al libro, ancor più che i numerosissimi riferimenti, restano alcuni luoghi in cui Biagi coglie l’aspetto umano e concreto degli attori di una vicenda che altrimenti rimarrebbe troppo schiacciata sul campo di produzione letteraria: penso al rapporto professionale e sentimentale fra Alberto Spaini (primo traduttore del Processo e di America di Kafka) e Rosina Pisaneschi (traduttrice di Hoffmann), un rapporto non privo di ostacoli familiari da parte di lei, vissuto anche attraverso l’impegno comune nella traduzione di vari libri di Thomas Mann e di Frank Wedekind; o al lavoro giornalistico di Giuseppe Antonio Borgese a Berlino, che per mettere insieme uno stipendio ogni mese deve scrivere almeno sette articoli. Non che il ritmo impressioni; il dato esprime più che altro una costante che ancor oggi non ha incontrato una flessione significativa.