La critica a effetto: rileggendo La trans-avanguardia italiana
(1979) di Denis Viva è il risultato di oltre un decennio di
riflessioni decantate sin dai tempi della tesi di dottorato
discussa dall’autore nel 2008 presso l’Università di Udine
e adesso approdate alla sintesi limpida e documentata del
libro pubblicato da Quodlibet nella collana della «Biblioteca Passaré. Studi di arte contemporanea e arte primaria»
diretta da Luca Pietro Nicoletti.
Nel volume la scrittura si sviluppa come in un quaderno
di lavoro, in cui, nel susseguirsi dei capitoli come messe
a fuoco progressive, Viva affronta singoli aspetti problematici di uno dei testi più noti della critica d’arte italiana
degli ultimi cinquant’anni e tuttavia forse anche uno dei
meno letti e mai realmente discussi: La trans-avanguardia
italiana di Achille Bonito Oliva, nella sua prima edizione apparsa su «Flash Art» nel numero doppio 92-93 di
ottobre-novembre del 1979. L’amara constatazione della
notorietà del testo – una notorietà eccedente ogni profilo
di problematizzazione in sede storico-critica, nonostante
la sua precoce storicizzazione, d’uno con la vicenda pittorica che tenne a battesimo – giustifica così la ragione
temeraria di un volume monografico che eccede a sua volta, nella sua densità teorica e lucidamente argomentativa,
l’oggetto dello studio – un articolo di appena quattro pagine – finalmente sottratto al suo monopolio ‘autoriale’.
Riscritture, traduzioni e ristampe del testo – in definitiva,
la sua narrazione ufficiale – sono infatti fin qui dipese da
quel fenomeno di ‘privatizzazione della memoria’ tipico
della storia italiana degli ultimi decenni (il riferimento è a
La repubblica del dolore di Giovanni De Luna), sullo sfondo
di un sistema dell’arte profondamente mutato, a livello internazionale, al giro di boa del Sessantotto e, per quanto
riguarda la specifica situazione italiana, e in maniera forse
ancor più significativa, del Settantasette.
I fatti sono noti. In singolar tenzone contro l’algido concettualismo e financo il ‘moralismo’ riduzionista e tautologico delle neo-avanguardie (assecondando per pigrizia,
o scaltrezza, meccanismi tipici di quella storiografia modernista che concepiva la ricerca artistica come avanza-
mento e affermazione di un primato che invece adesso, sulla carta, ci si proponeva di contrastare), Achille
Bonito Oliva conquistava la scena internazionale con un
neologismo molto felice e destinato a giocare un ruolochiave nella straordinaria fortuna del ritorno alla pittura
tra anni Settanta e Ottanta. A fare il resto furono il presenzialismo mondano e mediatico del cantore di questo
movimento e l’esposizione istrionesca e seduttiva di un
pensiero che si dava programmaticamente come cinica
provocazione e rivendicazione gaudente di una libertà
creativa nomade e contaminata, quale parte integrante
di una strategia comunicativa di affermazione della sua
poetica, in anni peraltro di esibita spettacolarizzazione
del dibattito culturale in Italia, a beneficio soprattutto
della televisione e delle riviste più glamour (valgano per
tutti gli scatti in costume adamitico e aggraziata posa alla
Paolina Borghese che immortalarono Bonito Oliva sulle
pagine di «Frigidaire» nel 1981 e ancora, più di recente, e
recidivamente, nel 2011).
L’esito più vistoso di questo atteggiamento è stato un dibattito, pure caratterizzato da altisonanti partecipazioni
(da François Lyotard a Fredric Jameson) e da velenose
stroncature (da Benjamin Buchloch a Germano Celant),
condotto in tutta evidenza soprattutto sulla ‘superficie
delle cose’: più sui risultati disomogenei e discontinui delle ricerche degli artisti che non sulle premesse teoriche,
critiche e storiche da cui essi muovevano; meno che mai
sulla coerenza che avrebbe dovuto tenere saldamente insieme manifesto programmatico – se questo doveva essere
il testo nelle intenzioni del suo autore – e proposte visive,
in realtà già organizzatesi in ordine sparso prima dell’ingresso in scena di Bonito Oliva e intorno ad altre istanze
mediali – il disegno e la fotografia, prima ancora del ‘ritorno alla pittura’ – e da lui sistematizzate solo ex post, in
una sintesi redazionale frutto anch’essa di tagli, riprese e
rimaneggiamenti di materiali in parte già editi, come puntualmente documentato da Viva.
È così sul fronte del ‘pregresso’ che si fanno strada le
novità più interessanti del volume e prendono corpo gli
affondi più originali: dai singoli percorsi dei protagonisti del gruppo prima della Transavanguardia, il più delle
volte scientemente omessi nella letteratura corrente, alla
ricostruzione della preistoria bonito-olivana, fra l’esordio
accademico salernitano e l’approdo a Roma, al recupero – di là dalla sua più nota attività espositiva – di due
testi-chiave del decennio Settanta, come Il territorio magico
(1972) e soprattutto L’ideologia del traditore (1976). In ritardo, il primo, su questioni poetiche e politiche proprie della stagione del Sessantotto, il secondo si propone come una
clamorosa smentita delle premesse del primo, spingendo
in maniera decisiva, e in sequenza serrata con le contestazioni giovanili del 1977 e l’assassinio di Moro nel 1978,
verso quel processo di de-politicizzazione della cultura, e
nella fattispecie di quella artistica, così liberata dal fardello
del confronto con l’ideologia o, più banalmente, dalla responsabilità di una posizione che non fosse ecumenica e
buona per tutte le occasioni, quando non sfrontatamente
autopromozionale: una disposizione ‘intellettuale’ in cui in
molti hanno visto le ragioni dell’avvicinamento di Bonito Oliva a Bettino Craxi e alla politica culturale del PSI,
nell’ambito della quale aveva preso corpo anche la collaborazione sistematica con l’«Avanti!».
Si arriva così dritti al nocciolo della questione. Dall’analisi
del contesto redazionale, anche solo in termini di impaginato e di layout grafico, alla riconsiderazione delle ambizioni internazionali, insieme culturali e commerciali, di
una rivista come «Flash Art» a cavallo tra anni Settanta e
Ottanta (dalla vendita degli spazi pubblicitari alla rete del
mercato delle gallerie private italiane che ne sostenevano
la pubblicazione), emerge uno spaccato assai più nitido
della gestazione e della nascita del contributo del 1979, finalmente disossato nella sua stratificata complessità di là
da ogni mitopoietico amarcord, non solo con riferimento al
‘contenitore’, per così dire, e alle sue politiche editoriali, ma
anche alle ragioni che hanno propiziato una coerente linea
di attenzione alle nuove ricerche figurative e d’immagine,
eminentemente pittoriche, maturate soprattutto in ambito
statunitense (ma ugualmente vive in Europa) e tempestivamente registrate dal periodico diretto da Giancarlo Politi,
nei contributi a firma di Thomas Lawson, David Salle e
Douglas Crimp apparsi nello stesso anno. Quanto più la
situazione americana veniva proposta in maniera problematica, ‘fluida’ e aperta ad apporti di diversa intenzione e
svolgimento, tanto più la controparte italiana poggiava, al
contrario, sulla sicumera di presupposti perentori e incontestabili, blindati ai soli sette nomi ufficialmente ricompresi
nella compagine iniziale – i cinque ‘canonici’ centro-meridionali di Sandro Chia, Francesco Clemente, Enzo Cucchi,
Nicola De Maria e Mimmo Paladino e i due toscani subito
dopo espunti di Marco Bagnoli e Remo Salvadori – secondo il modello tipico del drappello a ranghi serrati delle
avanguardie storiche.
La sponda teorico-critica offerta dal testo di Bonito Oliva
aveva il merito di condensare più di una buona idea del
dibattito internazionale sorto intorno alla nuova pittura
di figura ma alla fine proprio il suo provvidenziale appeal
cosmopolita, negli artifici retorici della sua composizione
e nei toni apodittici e assertivi della sua rutilante scrittura,
sembrava soprattutto funzionale a dinamiche mirate all’accreditamento e alla promozione, anche commerciale, del
gruppo all’estero. Anche per questo motivo la qualificazione ‘italiana’ certificava la denominazione di origine controllata della proposta nel suo complesso, rimarcandone
l’appartenenza identitaria e territoriale nell’agone internazionale del suo debutto ufficiale (il testo fu pubblicato in
traduzione sulla contestuale edizione inglese di «Flash Art
International» e in un di poco successivo volumetto monografico in italiano e in inglese edito sempre da Politi con
il tricolore in copertina). Giocava a favore di questa partita
la provenienza perlopiù meridionale degli aderenti al gruppo, configurabile nei modi propri di un’italianità ruspante e
vernacolare tanto più ‘autentica’ quanto più funzionale alla
riduzione macchiettistica di una subalternità a presa rapida
nell’immaginario globale, specie nordamericano, costruito
sull’accumulo di equivoci e stereotipi largamente acquisiti
dalla cultura di massa.
In una disamina condotta esclusivamente sul testo e dunque sulle relazioni intertestuali esibite o malcelate, allacciate più o meno consapevolmente, fin dentro le scelte
lessicali della sua scrittura, con altri saggi di riferimento
del dibattito di quel decennio – da Arte Povera. Appunti per
una guerriglia di Germano Celant (1967) ad Avanguardia di
massa di Maurizio Calvesi (1978) – si riconoscono prestiti,
omaggi, bersagli polemici, appropriazioni indebite e spunti di rielaborazione originale, che nella stesura definitiva
sparigliano però le carte di conclusioni obbligatoriamente affrettate e in distonia con le loro premesse: la libertà
cede così il passo all’evasione, l’autonomia al disimpegno,
la partecipazione alla solitudine dell’artista (e del critico;
e forse ancor di più dello spettatore), il coinvolgimento
al voyeurismo (nella moltiplicazione delle solitudini degli
sguardi), la centralità dell’immagine alla dissipazione del suo simulacro, la negazione della storia a una nuova narrazione, strumentale alla costruzione di nuove posizioni di
rendita e di credito, ancorché localmente confinate all’inerzia della replica o della variazione necessariamente fedele
all’assunto di base. La logica del brand si rivela così il più
autentico retaggio capitalista del rituffo liberal delle politiche reazionarie degli anni Ottanta, tanto più nel confronto
con altre posizioni di ricerca analoghe in Europa e negli
Stati Uniti e in considerazione della reticenza teorica così
disinvoltamente ostentata da Bonito Oliva in cui alla fine
nessuna e tutte le interpretazioni sono legittimate come
possibili. In una coazione a ripetere come in una trappola
cui paradossalmente è impossibile sottrarsi, la definizione
di postmoderno di Jameson, richiamata in apertura del saggio di Viva, indica allora anche la chiave d’accesso al tema
al centro del volume: se «il modo più sicuro per intendere il
concetto di postmoderno è considerarlo come un tentativo di pensare storicamente il presente, in un’epoca che prima di tutto ha dimenticato come si pensa storicamente», la
conquista di una solida prospettiva storica concorre a smascherare l’atrofia del discorso transavanguardista, in cui a
esser celebrati sono semmai, nelle stesse parole dell’autore,
«il fatalismo dell’inefficacia e la gioia dell’irresponsabilità».